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Questo articolo è stato pubblicato il 13 aprile 2013 alle ore 08:26.
L'ultima modifica è del 13 aprile 2013 alle ore 11:42.

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Abbiamo vissuto nelle ultime ore l'ultimo passaggio del settennato di Giorgio Napolitano, una presidenza che ha accompagnato l'Italia in uno dei periodi più tormentati della storia recente. E la conclusione è anche un lascito politico che il capo dello Stato consegna al suo successore: non solo, come è ovvio, il compito costituzionale di formare quel governo che fin qui si è rivelato impossibile. Ma anche un «metodo», chiamiamolo così, che può venire utile per rendere le prossime stagioni meno aleatorie ed effimere.
Sotto questo aspetto, il lavoro svolto dei «saggi» non va sottovalutato e tanto meno ridimensionato con l'arma del sarcasmo. Di sicuro non è stato una perdita di tempo: semmai un modo di impiegare con profitto il vuoto creato dal groviglio istituzionale di questa primavera, in attesa che il Parlamento elegga il nuovo presidente.
Napolitano ha voluto fortemente il doppio comitato di studi convinto che la ricognizione avrebbe dimostrato che non esistono divisioni irreparabili o conflitti irrisolvibili fra le forze politiche. Possiamo dire che ci è riuscito. I due "dossier" (economico-sociale e istituzionale) costituiscono una plausibile e per certi versi innovativa piattaforma intorno a cui riunire, almeno sulla carta, una maggioranza parlamentare animata da spirito riformatore. Un «metodo», appunto, nel segno della buona volontà o più semplicemente del buon senso. I nodi politici, beninteso, restano tutti irrisolti, ma si dimostra che nel merito non ci sono questioni davvero laceranti.

All'interno di tale cornice ideale, pienamente avallata dal capo dello Stato, sarebbe agevole scegliere un nuovo presidente della Repubblica la cui identità fosse riconducibile, in una linea di continuità, all'esperienza dei sette anni di Napolitano. Subito dopo dovrebbe essere possibile dar vita a un governo fondato sugli stessi criteri pragmatici di razionalità riformatrice utilizzati dai «saggi» nel loro lavoro.
Un'illusione? Forse no, semmai un'opportunità da cogliere. Ovvio che i nodi sono politici ed è sul terreno politico che vanno sciolti da Pd, Pdl e da altri soggetti. Ma almeno sul piano del metodo si dimostra che non esistono ostacoli insormontabili. Anche nel merito le proposte ragionevoli non mancano. Questa è l'eredità politica di Napolitano e sarebbe bene non sprecarla.

Tutto questo conduce al governo delle larghe intese, dopo l'elezione condivisa del capo dello Stato? Certo che sì, ma bisogna capire cosa s'intende per "larghe intese". La grande coalizione di cui parla Berlusconi, forse con minor vigore di prima, non è realistica. Ma le "larghe intese" sono una formula che copre altre ipotesi. Pure il «governo di scopo» oppure «l'esecutivo del presidente» per un periodo limitato sono scenari che alludono alle "larghe intese". Al tempo stesso risultano molto più accettabili anche all'interno del Pd (si veda l'assenso dato da Rosy Bindi al «governo di scopo») rispetto all'indigeribile grande coalizione alla tedesca.
Con un po' di ottimismo si può forse dire che il macigno si muove. Un sistema paralizzato comincia a rendersi conto che ha solo pochi giorni per non essere travolto da uno scontro indistinto sul Quirinale. I candidati idonei sono senza dubbio più di uno. Viceversa, un conflitto cieco protratto per giorni o settimane alla fine vedrà solo sconfitti sul campo di battaglia.

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