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Questo articolo è stato pubblicato il 17 febbraio 2011 alle ore 17:11.

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L'ultima nata, in termini di tempo, è la neurostatistica, che si propone di utilizzare l'elettroencefalogramma – i potenziali evocati – che rispondono alla presentazione di uno stimolo. L'uso (o l'abuso) del prefisso "neuro" è ormai diventata una tendenza molto diffusa, che abbraccia molte discipline che esulano dal campo medico-scientifico: dal più gettonato neuromarketing, si è arrivati a coniare la neuroteologia, la neurocosmesi, il neuro web design, per citare gli esempi più recenti, come se l'analisi neurale potesse essere la chiave di lettura di tutto. Così se negli anni Settanta ogni comportamento umano veniva spiegato con motivazioni socio-economiche, ora la stessa cosa sembrerebbe avvenire con quelle biologiche. Il cambio di rotta, in effetti, non è casuale, ma nasce da un reale progresso della ricerca e dal salto tecnologico che consente di osservare sempre più in dettaglio il funzionamento del cervello e le connessioni tra mente e corpo. Ma è davvero possibile, da un punto di vista scientifico, trasferire e quindi utilizzare le informazioni della ricerca di base alle (neuro)scienze sociali?

L'anima del cervello

Il fronte dei neuroscienziati, per quanto riguarda le scoperte che riguardano il cervello, è ottimista, stando alle conclusioni riportate su Nature Neuroscience di una metanalisi di 56 studi eseguiti dal 1950 a oggi. Secondo i neurologi del Rehabilitation Institute di Chicago, autori dello studio, «le neuroscienze potrebbero essere molto vicine a una svolta epocale». Se, infatti, nel 1950 era possibile registrare l'attività di un solo neurone alla volta, oggi la tecnologia consente di misurare, da diversi punti di vista, centinaia di neuroni che lavorano contemporaneamente, permettendo di disegnare mappe dettagliate del funzionamento cerebrale. Parafrasando la legge di Moore, il numero di neuroni che è possibile studiare in contemporanea raddoppia ogni sette anni, e di conseguenza il numero delle informazioni. «Negli ultimi anni è anche cambiato il modello di ricerca – precisa Raffaella Rumiati, neuroscienziata alla Sissa di Trieste –. Oggi si cerca di parlare di circuiti, più che di aree cerebrali, perchè nessuna regione del cervello è isolata dalle altre. Le varie reti si parlano a seconda dello scopo del nostro comportamento e quindi è fondamentale capire le loro interazioni». L'interesse di fondo è però capire come l'attività dei neuroni porta a prendere delle decisioni. «Certamente oggi sappiamo qual è l'attività dei neuroni, come si scambiano le informazioni, le aree e i network coinvolti, ma questo non è sufficiente a definire l'identikit comportamentale dell'individuo. In altri termini non è possibile vedere un pattern di attivazione cerebrale per dire se un soggetto è uno psicopatico o un terrorista. Non so cosa succederà in futuro, al momento però non mi basta una "fotografia" per decidere se una persona è felice o meno. Così come leggere la mappa genetica non dice tutto di una persona, non è un destino». I tratti della personalità sono senza dubbio qualcosa di molto più complesso. Cosa può dire allora un esame come l'Eeg?

«La tecnica ideata da Guido Tripaldi (si veda l'articolo in prima pagina, ndr) – risponde Rumiati – può essere utile a chi fa ricerche di mercato e sondaggi perchè può fornire informazioni sui processi cognitivi coinvolti in certe decisioni o preferenze di gruppi anche numerosi di partecipanti a un sondaggio. Queste ricerche neurostatistiche dovrebbero basarsi sulle conoscenze fornite dalla ricerca di base, ma non penso possano fare avanzare la ricerca di base e non credo nemmeno che pretendano di farlo». Ma di fronte a un'intervista "con elettrodi", scegliamo o reagiamo? «Se mostro una foto di un ratto, la persona non sceglie, reagisce a un immagine sgradevole. Ci sono risposte che non controlliamo, movimenti riflessi involontari. Le risposte che si vogliono avere da un sondaggio implicano una riflessione, un'elaboraziopne inconsapevole, ma neppure involontaria. Un esempio: di fronte a delle parole seguite da altre parole, l'elaborazione mentale è più rapida tanto più le parole sono in relazione tra loro. Risultato: si risponde più velocemente, ma non si è consapevoli di farlo».
Nettamente scettico di fronte alla tendenza di "neurorizzare" tutto delle scienze sociali è lo psicologo cognitivo Paolo Legrenzi, autore con lo psichiatra Carlo Umiltà, del libro Neuro-mania, che la Oxford University ha appena deciso di tradurre. «Il 95% della nostra vita non emerge a livello di consapevolezza. E il percorso di cui noi non siamo consapevoli e che conduce alla scelta è molto complicato. Capire come uno vota, cosa compra o cosa sceglie è impossibile perchè il processo cerebrale non è specializzato in questi termini. Lo è per altri aspetti, ma non nel campo delle emozioni. Sappiamo che la loro sede è l'amigdala, ma questa regione non è schematizzabile per tipo di emozioni. Si sa che quando siamo emozionati l'amigdala è attivata, ma in modo generico. E con un tale livello di generalità non è possibile far nulla a livello di lettura delle intenzioni. Certo sul pubblico ha un forte appeal far credere che funzioniamo come una macchina organica, e spiegare perchè ci innamoriamo, litighiamo, ci abbuffiamo... il segreto è costruire queste storie in maniera credibile, come fanno i grandi registi».

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