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Questo articolo è stato pubblicato il 02 luglio 2011 alle ore 17:42.

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È bene che sappiate subito una cosa: questa intervista cambierà, seppur di poco, il vostro cervello. Perché dopotutto, «l'obiettivo ultimo è conoscere se stessi», dice Tomaso Poggio. Ma Poggio, che filosofo non è, dell'iscrizione sul tempio dell'Oracolo di Delfi ha una visione molto più moderna. Per lui, conoscere noi stessi significa capire come funziona il cervello umano, togliere i veli sui meccanismi dell'intelligenza. «Secondo me, è una questione ancor più importante dell'origine della vita o della materia. Per un semplice motivo: è con il cervello che cerchiamo di capire gli altri problemi», dice il neuroscienziato dell'Mit, direttore del Center for biological and computational learning.

È un po' restrittivo, definire Poggio un neuroscienziato. Saldamente fra i primi dieci della classifica Top italian scientist (secondo il cosiddetto H-index, che tiene conto dei lavori pubblicati e di quante volte vengono citati), è però anche il numero uno per ecletticità: ha scritto paper di biofisica, matematica dei sistemi non lineari, teoria dell'apprendimento, visione degli insetti, genomica, computer grafica e perfino di finanza (con i suoi algoritmi ha cofondato un hedge fund, poi venduto). È una specie di conferma: tutto comincia dal cervello.

«Siamo ancora ben lontani dal capire come funzioni l'intelligenza», avverte il professore dell'Mit, nato a Genova 64 anni fa. «Ma la ricerca sta portando frutti a una rapidità un tempo impensabile». Poggio è un pioniere della visione computerizzata, eppure ammette che non si sarebbe mai atteso di vedere - nell'arco della vita - le applicazioni commerciali di un lavoro uscito dal suo laboratorio quindici anni fa. «C'è un'azienda israeliana, fondata da un mio ex allievo – racconta – che produce sistemi visivi per le automobili: mantiene la distanza di sicurezza, vede i pedoni e frena in caso di pericolo». La Volvo già monta su una vettura i sistemi della MobilEye di Gerusalemme, che nei prossimi due anni saranno adottati anche da Bmw, Audi, Toyota, Ford. Ormai, quasi tutte le macchine fotografiche digitali sono in grado di individuare volti umani, per metterli a fuoco. Anche questo origina da uno studio di Poggio degli anni Novanta. Un po' di tempo prima era successo lo stesso con l'algoritmo – originalmente adottato da Panasonic – per correggere il movimento della mano nelle telecamere. È quel che accade quando si usa il cervello per studiare il cervello. L'intelligenza come grimaldello dell'intelligenza.

E pensare che questa storia origina da «Fiori per Algernon», un libro per bambini degli anni Cinquanta, dove un uomo e un topo si sottopongono a un esperimento per aumentare la propria intelligenza. «Rimasi attratto dalle domande scientifiche sull'intelligenza. Che cos'è? Come si può migliorarla?», racconta lo scienziato genovese che, dopo dieci anni all'Istituto Max Plank per la biologia cibernetica, nell'81 ha accettato la cattedra all'Mit.

Ma quelle domande sono ancora aperte. «Il cervello ha bel numero di connessioni: 10 alla quattordicesima», ovvero 100mila miliardi. A voler fare un'analogia con il computer, «la memoria umana è nell'ordine dei 10 alla quindicesima bit». Le macchine «sono già in grado di fare cose meglio di noi, ad esempio giocare a scacchi, ma ho qualche dubbio quando Ray Kurzweil dice che la crescita della capacità di calcolo porterà a macchine più intelligenti di noi: nessuna crescita esponenziale può andare avanti all'infinito, e non è detto che maggiore capacità di calcolo comporti maggiore intelligenza».

Il prossimo obiettivo di Tomaso Poggio è puntare dritto ai meccanismi dell'intelligenza. Il suo contributo all'umana scoperta del cervello umano, potrebbe racchiudersi in un'intuizione: «Credo che la chiave dell'intelligenza stia nell'apprendimento», dice, osservando poi che sarebbe una buona idea spiegare a scuola, alle giovani generazioni, che il cervello «è come un muscolo da allenare». A conti fatti, non si studia la storia per imparare le date, ma per "costruire" il cervello.
«Il cervello è in costante cambiamento», spiega il professore. «Durante questa chiaccherata al telefono, le cose che ci siamo detti hanno cambiato fisicamente il nostro cervello: alcuni dendriti, piccoli rametti dei neuroni, sono cresciuti e altri sono decresciuti». Ma anche i dendriti dei lettori che arrivano in fondo all'intervista? «Certo, anche i loro».

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