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Questo articolo è stato pubblicato il 09 luglio 2011 alle ore 15:41.

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Hanno calcolato che il loro algoritmo potrebbe ridurre fino al 40 per cento il numero di veicoli coinvolti in un tamponamento a catena. Ma per averne la certezza dovranno aspettare la prossima settimana quando partiranno per Los Angeles per sperimentare insiema a Toyota, Stm e alla University of California (Ucla) il loro sistema per il rilevamento automatico degli incidenti. Loro sono tre ricercatori bolognesi, Marco Roccetti, Alessandro Amoroso e Gustavo Marfìa. «Da alcuni anni stiamo studiano come sfruttare i sensori montati nelle auto e le tecnologie a basso costo per mettere in comunicazione i veicoli», racconta Roccetti che insegna all'università archittetura di internet. Ecco come funziona, almeno sulla carta: un sensore registra una frenata brusca o comunque un movimento anomalo della vetture. Questo segnale 'rimbalza' (in modalità peer-to-peer) sull'auto dietro che a sua volta trasmette l'allarme a chi la precede. Messa così sembrerebbe fin troppo semplice, esistono già sistemi che rilevano il taffico o punti di interesse attraverso i navigatori satellitari (Gps) o infrastrutture che comunicano con i terminali mobili usando la banda larga.

«Il sistema satellitare per la segnalazione delle emergenze è lento. Una struttura centralizzata invece rappresenta in ogni caso un investimento. Occorrono hot spot, una organizzazione gerarchica e trasmissioni bidirezionale. Noi - spiega - volevamo un sistema che utilizzasse tecnologie poco costose e standard comuni. Nel nostro caso usiamo interfacce Wifi, l'hardware costerà al massimo 40 dollari e - precisa il ricercatore - può essere tranquillamente installato dal produttore».

Attualmente questi dispositivi sono presenti in tutte le auto di grande cilindrata ma presto, sostengono, saranno integrate anche nei modelli più economici. Ma ancora più importante serve un sistema capace di rendere il tam tam più rapido possibile ed evitare che il sistema si ingolfi. Se tutte le auto si mettono a trasmettere il segnali si rischia di saturare la banda disponibile. Occorre quindi che il sistema sia selettivo capace di operare in un raggio che varia dai 300 ai mille metri e di scegliere quale auto consegnerà il messaggio. A logica parrebbe più semplice scegliere la vettura più lontana. Nella pratica invece non è così perché può bastare un camion ha disturbare il segnale. E in ogni caso le auto devono essere costantemente in contatto tra loro. Tutte queste informazioni devono poi essere continuamente aggiornate. L'algoritmo dei bolognesi, descritto nell'articolo scientifico in uscita sulla rivista Computer networks, promette di saper individuare l'auto 'giusta' quella che sa e può rilanciare il segnale più lontano possibile. La sfida non è solo affidata a una equazione. Su queste tecnologie di trasmissione stanno lavorando numerosi laboratori.

Un paio di anni fa Regione Piemonte, Politecnico di Torino, Centro ricerche Fiat e Csp, l'organismo di ricerca regionale sulle tecnologie dell'informazione e della comunicazione hanno collaborato al progetto Vicsum orientato a produrre prototipi e a progettare una infrastruttura per la mobilità urbana. Claudio Casetti, professore ed esperto di vehicular network al Politecnico di Torino ha lavorato al progetto che ha ricevuto un finanziamento di 1,7 milioni di euro: «Abbiamo dimostrato che attraverso apparati Wi-Fi era possibile condividere informazioni come il benzinaio più vicino, se ci sono parcheggi con posti liberi e via dicendo. I conducenti attraverso una tastiera potevano inserire le informazioni che a loro volta venivano condivise attraverso l'infrastruttura. Il limite, allora, era rappresentato dalla penetrazione della tecnologia. Mi spiego: per rendere sostenibile il sistema occorre che almeno il 20% dei veicoli sia dotato di wi-fi e sopratutto devono esserci abbastanza router sul territorio capaci di ritrasmettere le informazioni». Attualmente il Politecnico di Torino e Csc stanno lavorando a un progetto per riutilizzare frequenze della tv analogica. «Hanno la caratteristica di arrivare a grandi distanze ma possiedono poco banda. L'idea - spiega - è quella di usare una infrastruttura centrale con hot spot e router capace di trasmettere mappe, filmati e file. E connetterli attraverso queste frequenze. Per ora stiamo scrivendo il protocollo». L'altro filone di ricerca passa invece dai telefonini.

Gli smartphone sono un concentrato di tecnologie di trasmissione: Wi-Fi, bluetooth, Gps ecc. Sono strumenti che si connettono a internet e possono dialogare tra loro. «Fino a pochi anni fa era più complicato. Oggi - conferma l'ingegnere torinese - studiare applicazioni per questi dispositivi è più semplice. Da qui l'idea di sviluppare per Android (il sistema operativo mobile di Google ndr)». Perché questa scelta? «Nessun pregiudizio - si difende - Ci appare semplicemente più versatile e meno controllato di quello di Apple».

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