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Questo articolo è stato pubblicato il 01 ottobre 2011 alle ore 15:45.

È tutta italiana la ricerca e la sperimentazione del primo vaccino al mondo per la prevenzione dei tumori: terminata la sperimentazione sui topi, entro l'anno inizierà quella sull'uomo. L'innovativa linea di ricerca si basa in pratica sulla possibilità di attivare il sistema immunitario per prevenire tipi di cancro come quelli della mammella, del pancreas e della testa-collo. Tutto questo attraverso l'inoculazione, seguita da una scarica elettrica, di un "vaccino a Dna" che blocca la proteina prodotta da un particolare oncogene chiamato ErbB-2. Questo antigene è già al centro dell'attenzione mondiale, e riconosciuto come bersaglio antitumorale. L'innovazione della ricerca italiana sta nell'aver pensato e realizzato un nuovo approccio per contrastarlo: anzichè somministrare anticorpi monoclonali (e già commercializzati dalla biotech Genentech), l'obiettivo è di farli produrre dal nostro organismo, stimolando così la produzione endogena di anticorpi contro il tumore, riducendo di molto gli effetti collaterali.
Il segreto del network italiano – costituito dall'Università di Camerino nel nome del biologo molecolare Augusto Amici, dall'Università di Torino, con l'immunologo Guido Forni, dall'Università di Padova che farà sotto la guida di Giorgio Amadori la sperimentazione clinica di fase 1 e il supporto tecnico-finanziario della farmaceutica milanese Indena - è quello di aver trovato il sistema per convincere l'organismo ad attaccare le cellule tumorali, e quindi di rompere la "tolleranza" verso i suoi antigeni. In che modo? «È stato un percorso a tappe partito nel 1994, quando ho avviato i primi lavori sul vaccino a Dna – racconta Amici in occasione del congresso internazionale "gene vaccination in cancer" che ha riunito ad Ascoli Piceno oltre 100 studiosi del settore –. Il salto di qualità avviene quando grazie alla collaborazione con la farmaceutica italiana Indena viene brevettato il plasmide RHut ibrido, cioè metà uomo e metà topo: la parte estranea amplifica la risposta immunitaria, quella umana viene riconosciuta meglio, brevetto a cui siamo potuti arrivare grazie anche alla ventennale collaborazione con l'immunologo Guido Forni, dell'Università di Torino, il cui laboratorio era già noto a livello internazionale per i suoi lavori sui vaccini alle citochine».
«La terza nota d'innovazione sta nella elettroporazione – commenta Forni –. Abbiamo cioè visto che se diamo una scossa elettrica tramite due elettrodi l'efficacia del vaccino a Dna aumenta notevolmente, perchè modifica la membrana cellulare che diventa più permeabile alle sostanze. Anche questo strumento è prodotto dall'italiana Igea. Un'altra cosa che ci distingue è il fatto che molti vaccini che sono allo studio sono diretti contro antigeni tumorali che non hanno un ruolo causale nella crescita della neoplasia. Invece, il nostro è fondamentale: senza di esso la massa tumorale non cresce».
Al momento, gli studi sui topi hanno messo in luce anche un'altra caratteristica: il vaccino funziona molto bene come preventivo, mentre la sua efficacia diminuisce con l'aumentare della massa tumorale. «I topi impiegati nella sperimentazione sono geneticamente predisposti per sviluppare nel corso della loro vita il cancro – spiega Amadori, che entro novembre dovrebbe reclutare una ventina di pazienti per partire con la fase clinica approvata un mese dall'Istituto superiore di sanità –. L'outstanding della ricerca sta proprio nel fatto che i topi non si ammalano e muoiono di vecchia. Una differenza sostanziale che se fosse trasferita e confermata nell'uomo porterebbe a un vaccino che protegge dalle recidive».
E al convegno di Ascoli non sono mancati i gruppi di ricerca stranieri che hanno espresso l'intenzione di estendere la sperimentazione di questo vaccino anche in altri tumori negli Stati Uniti, come il Karmanos Cancer Institute di Detroit. «Un successo italiano quindi che sta catturando attenzione a livello internazionale» sottolinea il docente di Camerino.
Se poi tutto dovesse andare per il verso giusto si porrà il problema di trovare un licenziatario. «La nostra attività di ricerca è sempre stata rivolta più ai processi che ai prodotti – conclude il presidente di Indena Dario Bonacorsi –. Siamo riusciti a sostenere le fasi di tossicologia e a produrre il dossier da sottoporre all'Iss per avere l'autorizzazione in clinica. I risultati sono così incoraggianti che ci piacerebbe riuscire a supportare lo sforzo dei trial clinici, anche perchè è un progetto che è nato sostanzialmente in Italia». Ma per conoscere i risultati occorre attendere la fine del 2012.
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