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Questo articolo è stato pubblicato il 09 ottobre 2011 alle ore 16:01.

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Emozione, certo. Il palazzo del MediaLab è un monumento alla storia del futuro. Arrivando a piedi dalla strada centrale di Cambridge, Massachussetts, l'improbabile cittadina di Harvard e dell'Mit, al fondo di una piazzetta si scorgono i fregi dai colori naif scelti alla metà degli anni Ottanta dall'architetto sino-americano I.M. Pei, forse per correggere il buio interiore dell'edificio, il cui gigantesco e inutilizzabile atrio sembra schiacciare lo spazio dei laboratori e limitare l'estensione delle finestre. Il risultato è una simbolica oscurità.

Già. Era un'altra epoca. La ricerca del MediaLab era un percorso pionieristico, illuminato da intuizioni straordinarie. Come quella di Nicholas Negroponte, colto scienziato con la predisposizione per gli affari, che in questo palazzo ha inventato il concetto di convergenza digitale: la visione dell'unificazione dei grandi settori dell'informatica, dei media e delle telecomunicazioni, sulla scorta della trasformazione in bit dell'informazione e del modo di produrla, trasportarla, fruirne.
Forse, il vecchio edificio era troppo piccolo e buio per contenere tutte le conseguenze di quell'ipotesi decisiva. Sicché, il MediaLab è raddoppiato, affidando il tema architettonico allo studio giapponese Maki e Associati: luminosa ed essenziale, la nuova metà della sede del MediaLab dichiara che, se negli anni Ottanta il futuro poteva sembrare un "altrove" difficile da decifrare, oggi è una presenza tutta da vivere.

Camminando tra i laboratori del MediaLab, tra mura di vetro e porte sempre aperte, si vedono uno accanto all'altro i filoni di ricerca esplorati nel tempo dall'istituto di studi sui media digitali più famoso del mondo.
Si vedono i giochi educativi di Mitchel Resnick, l'inventore di Scratch, un ambiente di programmazione con il quale centinaia di migliaia di bambini, dagli otto anni in su, creano con facilità storie e giochi, animazioni e simulazioni con il computer.
Più avanti, ci sono le protesi tecnologicamente avanzate sviluppate da Hugh Herr. Gli avevano amputato entrambe le gambe al di sotto delle ginocchia nel 1982: ha trasformato la disgrazia nella premessa di un successo. Le protesi che Herr progetta sono in titanio e carbonio. Le loro prestazioni sono migliorate da sensori e microprocessori specializzati nella comunicazione tra il corpo "naturale" e quello "artificiale".
Ovunque, tavoli e scaffali pieni di oggetti normalissimi, orsacchiotti e pantaloni, caschetti e occhiali, resi intelligenti dall'innesco di chip programmati per trasformarli in altrettanti strumenti di connessione con i media. Un laboratorio è dedicato all'artigianato avanzato, per studiare come connettere i sistemi produttivi del vetro, del cuoio, del legno, del ferro, con l'elettronica e il software.

Già. Perché da queste parti passano personaggi che guardano lontano sapendo bene da dove vengono. Costruttori di prospettive nuove. Marvin Minsky, uno dei fondatori dell'intelligenza artificiale, autore di Society of Mind. Hiroshi Ishii, inventore di Tangible Bits, un'interpretazione dell'interazione tra umani e computer che i nuovi terminali mobili sembrano avere avverato con enorme successo. Barry Vercoe, capace di connettere scienza e arte, attraverso la musica.
Esploratori del futuro. La loro nave sente forse i decenni che sono passati dal giorno del varo. Ma sa ancora accogliere energie innovative inesauribili come quella di Ethan Zuckerman, attivista e cosmopolita, cofondatore di Global Voices, che porta al MediaLab la sua esperienza dei media civili. E come Joi Ito, innovatore seriale, chiamato a rilanciare l'esplorazione, rigenerando l'entusiasmo di un equipaggio eccezionale.

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