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Questo articolo è stato pubblicato il 11 febbraio 2012 alle ore 21:06.

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«Raw - data - now», «Dati - grezzi - subito». Ovvero: pubblica amministrazione non stare avvinghiata ai tuoi dati, o non stare a pettinarli ossessivamente - dacceli subito, così come sono, esortava nel 2009 Tim Berners-Lee, l'inventore del web. In quegli stessi mesi, il neopresidente americano Obama favoriva la nascita del portale www.data.gov. Ma ben prima sia di Berners-Lee sia di Obama, nell'ormai lontano 2003, era già stata l'Unione Europea a promulgare una Direttiva sulle informazioni del settore pubblico, auspicandone la messa a disposizione secondo alcune regole di base valevoli in tutti i paesi dell'Unione (direttiva ora in corso di revisione).

Oggi l'onda dei «dati aperti» (o, in inglese, open data) si sta innalzando poderosa in numerosi stati del mondo - Italia inclusa, dove il tema degli open data figura prominente nell'Agenda Digitale del governo Monti. Perché è dovuto passare quasi un decennio prima che il tema apparisse seriamente nel radar della politica? O, restrigendo la domanda che altrimenti rischierebbe di essere troppo ampia: chi sono i nemici degli open data? Sono principalmente due gli ostacoli principali da superare per affermare pienamente il paradigma degli open data: un ostacolo in alto e l'altro in basso.

In alto, ovvero, a livello politico (inclusi i vertici amministrativi) gli open data sono ancora visti spesso con sospetto perché gli hanno il potenziale di aprire molte, troppe finestre sull'operato di un sindaco, di un ministro o di un rettore. In altre parole, gli open data implicano - almeno in potenza - trasparenza e responsabilità. Per alcuni questo è il motivo principale per chiedere a gran voce open data. Ma per numerosi amministratori e politici, ancora abituati a considerare il controllo dell'informazione come una prerogativa del potere, gli open data sono invece come fumo negli occhi, un'indebita incursione nei sacri recinti. Da questo punto di vista, il pericolo più grande è che gli open data vengano ufficialmente (e gattopardescamente) abbracciati, ma solo per rilasciare il minimo possibile di dati e comunque il più possibile innocui.
Occorre dunque creare dei meccanismi che consentano alla società civile (dalle aziende ai cittadini) di poter ottenere tutti i dati desiderati, salvo specifiche, limitate e motivate eccezioni, sul modello delle leggi di libertà di informazione dei paesi più evoluti.

Il secondo nemico degli open data può essere semplicemente il singolo funzionario (uso qui il termine in modo generico) che ha la disponibilità fisica dei dati e che in qualche modo li considera quasi una sua proprietà personale. A volte il possesso di tali dati viene visto come una forma di potere in rapporto ad altri uffici della stessa amministrazione. In altri casi si vogliono tenere nascosti per timore che possano rivelare incompetenza o peggio. In altri casi ancora, i più benevoli, non si rilasciano per genuino desiderio di ripulire e migliorare i dati. A quest'ultima categoria di funzionari va semplicemente detto di rilassarsi, magari ripetendo con un sorriso il mantra di Berners-Lee: «raw - data - now». Ai possessivi, invece, va ricordato che i dati non sono loro: sono della collettività; alla quale, salvo casi molto particolari, si sta sempre più riconoscendo un diritto generale di accesso e riuso.
È quindi opportuno che le strategie open data in via di definizione tanto a livello nazionale che a livello locale vengano corredate di specifiche misure per fronteggiare queste due tipologie di ostacoli. Altrimenti tra un paio d'anni corriamo il rischio di ritrovarci con tanti portali open data semi-vuoti - o pieni di dati attentamente selezionati per non dare fastidio a nessuno.

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