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Questo articolo è stato pubblicato il 22 aprile 2012 alle ore 08:18.

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Più «tech transfer» in ateneoPiù «tech transfer» in ateneo

«Io la chiamo trasformazione produttiva della conoscenza». Riccardo Pietrabissa, presidente di Netval (Network per la valorizzazione della ricerca universitaria) che da dieci anni monitora e misura quanto della ricerca universitaria italiana si traduce in impresa e business, una idea per rendere più produttivi gli atenei ce l'ha. Anzi, ne ha due. «Abbiamo tonnellate di brevetti che più che a guardare alle applicazioni guardano alla conoscenza. Il che va benissimo - osserva - ma non producono crescita. Una proposta è appunto quella di creare dei dipartimenti immaginati per mettere insieme soluzioni applicative. Ricercatori multidisciplinari capaci appunto di trasformare in modo produttivo la conoscenza mettendo insieme i saperi. Si tratterebbe - aggiunge - di una attività di ricerca che gli uffici di trasferimento tecnologico non possono assolvere ma su cui vale la pena riflettere».

La proposta di Pietrabissa prende forza dall'analisi contenuta nel nuovo rapporto Netval che da un decennio ragiona su come aprire i cassetti dei laboratori alle impres. Dal 2002 a oggi molto è cambiato nelle aule delle università. È arrivato un nuovo codice italiano sui brevetti che ha stabilito la titolarità dei brevetti della ricerca in capo agli inventori, sono nati gli uffici di trasferimento tecnologico nelle università, nuovi statuti delle università hanno indicato il trasferimento tecnologico fra i propri compiti. Ma è arrivata anche la grande crisi economica e industriale del 2008, le cui conseguenze sono ancora evidenti come anche la riduzione del finanziamento pubblico agli atenei e agli enti pubblici di ricerca.
Dall'analisi dei dati del rapporto e dall'osservazione delle attività svolte "sul campo" durante il 2011 emergono due considerazioni. Calano (di poco) ma calano gli addetti impegnati negli Uffici di trasferimento tecnologico (Utt). Cioè il personale che ha tra i suoi compiti quello di avvicinare l'università all'impresa portando soldi in più nella casse dell'ateneo. Parallelamente diminuiscono (meno di duemila unità) i docenti di materie tecniche e scientifiche. Ma nonostante questi due segni meno aumenta la produttività brevettuale delle università (si legga il grafico in alto).

Anzi, più nello specifico, pur restando altissimo il divario tra le prime top five (Politecnico di Milano, Politecnico di Torino ecc) il resto delle università, aumenta in media numero di invenzioni, le domande di brevetto e anche quelli concessi. «Insomma si brevetta di più e meglio ma i dati sugli addetti agli Utt e quello sulle licenze ovvero sui contratti con le aziende per sfruttare il portafoglio delle proprietà intellettuali posseduto dalle università non è rassicurante», commenta Andrea Piccaluga dell'Istituto di Management Scuola Superiore Sant'Anna. Per dirla in altro modo, la crisi c'è e si fa sentire. Le imprese nell'ultimo anno hanno bussato meno del solito all'ufficio brevetti dell'università mentre le pmi storicamente faticano a dialogare con professori e ricercatori. I contratti per il personale dell'Utt sono scaduti e molti hanno scelto di andare all'estero o cercarsi un posto nelle fondazioni o nel privato. E anche sul fronte delle imprese che nascono in ateneo il dato non è più confortante come negli ultimi anni. «Se un numero insufficiente di imprese spin-off cresce rapidamente, se il flusso di investimenti da parte dei venture capital non è ancora paragonabile a quello di altri paesi occidentali e se i contratti di licensing stipulati tra università e imprese italiane non hanno ancora raggiunto i livelli desiderati, non possiamo affermare che è solo una questione di tempo e di maturazione del sistema». Secondo Piccaluga, un po', come sempre, è una questione di quattrini che mancano. Se non ci sono soldi per potenziare gli uffici di trasferimento almeno le piccole università - propone - potrebbero federarsi in moda da centralizzare l'output verso l'esterno. Anche perché il divario tra grandi e piccoli è fortissimo.

Più di metà del totale dei brevetti concessi si concentra nella top five. Sarebbe poi interessante analizzare l'output accademico non solo in termini di proprietà intellettuale e spin-off. Un ricco portafoglio brevettuali può nascondere progetti che costano e non hanno impatto sul mercato. Inoltre, l'attività di un Utt è a volte non misurabile per esempio nelle sue funzioni di consulente per pmi e enti locale.
Servirebbe quindi misurare meglio l'output dell'università ma certamente va ripensata l'esperienza degli Utt anche alla luce dell'esplosione di interesse nei confronti del tema startup/spinoff. Il trasferimento tecnologico tradizionale (attraverso licensing o contratti di ricerca) viene affiancato sempre più dal concetto di entrepreneurial university, ovvero da università che fanno tech transfer favorendo la nascita di startup e spinoff. In Gran Bretagna ad esempio le agenzie regionali di sviluppo (Rda) spesso finanziano incubatori perché riconoscono che hanno un effetto economico-sociale. Negli Stati Uniti la presidenza Obama ha lanciato Start Up America (un programma governativo da un miliardo di dollari di supporto alla creazione di impresa) nel gennaio 2011.
«Il mondo è cambiato. Fino a 40 anni fa - osserva Pietrabissa - le grandi aziende parlavano con l'università e trasferivano tecnologia alle piccole. Per le pmi si veniva a creare un mercato protetto ma tuttosommato il sistema era in equilibrio. Quando sono finite le commesse, il sistema si è rotto. Oggi è l'università a produrre startup. Piccole imprese nascono ma non riescono a crescere. Servono le imprese, un nuovo patto di crescita tra grandi e startup».

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