«Se dovessi inventare adesso il cubo sarebbe tutto diverso. Certamente non impiegherei sei anni a portarlo sul mercato. Ma erano altri tempi. Il mondo era radicalmente diviso, vivevo in un paese occupato, con un'economia pianificata, che non lasciava spazio all'innovazione».

Eppure Ernö Rubik alla fine ci riuscì. A metà anni Settanta inventò il gioco destinato a diventare un passatempo planetario, seppure il suo intento primario fosse quello di trovare un metodo per spiegare la geometria tridimensionale. Più di 300 milioni di cubi dopo (per gli amanti delle statistiche: se fossero messi in fila i cubi venduti in tutto il mondo andrebbero dal Polo Nord al Polo Sud), l'architetto appassionato di matematica, non è cambiato. Ruvido e diretto come ai tempi in cui fronteggiava l'ottusa burocrazia ungherese, è andato a Copenhagen a premiare altri colleghi inventori all'European Inventor Award promosso dall'ufficio europeo dei brevetti.

Di certo non rimpiange di aver brevettato per tempo il suo magico cubo. «La protezione è molto importante per un inventore - commenta - soprattutto perché gli consente di dare un futuro alla sua idea, di trovare partner disposti a portare il progetto sul mercato». Oggi quale sarebbe l'erede del cubo? «Non amo rispondere a domande ipotetiche - taglia corto - l'unica cosa che posso dire è che continuo ad amare gli stessi giochi di anni fa e comunque tutti quelli che hanno spessore intellettuale, che ti sfidano, ti provocano».

E i videogiochi? «I computer sono splendidi strumenti ma non li usiamo nel migliore dei modi. Io ho iniziato con il Commodore, lo usavo per programmare, non riesco a immaginare un uso passivo di questo mezzo, così come avviene per le nuove generazioni: non ci può essere progresso senza un rapporto creativo. Vale in ogni occasione, in ogni momento della vita. Se la lampadina si brucia perché chiedere a qualcun altro di cambiarla? Fallo da solo».

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