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Questo articolo è stato pubblicato il 01 luglio 2012 alle ore 16:47.

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Anne Wojcicki, co-fondatrice dell'azienda di genomica fai da te 23andMe – nonché moglie del boss di Google, Sergey Brin – ha annunciato qualche giorno fa sul suo blog che la società si è aggiudicata il suo primo brevetto dal titolo I polimorfismi associati al morbo di Parkinson. L'annuncio ha ovviamente creato scompiglio, soprattutto tra i clienti che hanno condiviso i dati genetici a titolo gratuito con 23andMe. «Nel consenso informato che ho firmato dov'era scritto che i miei dati potevano essere usati per brevettare geni? Non riesco a trovare il paragrafo...», ha postato perplessa Holly Dunsworth. In realtà, sul documento c'è scritto: «Se 23andMe sviluppa la proprietà intellettuale e/o commercializza prodotti o servizi, direttamente o indirettamente, sulla base dei risultati di questo studio, tu non riceverai alcun compenso».

Wojcicki, che ha costituito 23andMe come una rete sociale copiando da Flickr e da Facebook, si difende dietro quello che è da sempre il suo obiettivo: democratizzare la genetica. «In questo modo siamo in grado di rivoluzionare e accelerare il ritmo della ricerca». Come darle torto. In effetti, questi studi possono generare rapidamente nuove informazioni e l'analisi di dati raccolti tramite social media sta davvero cambiando la medicina. Quando a farlo, però, è un'azienda privata che sfrutta i dati dei propri clienti, ci si chiede se non sia ora di cambiare qualcosa, o a fare soldi sono sempre i soliti noti. Perchè invece di selezionare i soggetti di una ricerca, pagarli, seguirli, analizzarli, 23andMe si fa pagare un servizio che poi rivende guadagnandoci altri soldi. Come se ne esce salvaguardando ricerca e privacy allo stesso tempo? Alcuni hanno nostalgia del passato, quando i campioni venivano donati per altruismo. Ma oggi questo non funziona più. La rapida crescita e il crollo dei costi della lettura del Dna hanno creato una mole di dati impressionante e molto preziosa per il progresso della scienza. Il rovescio della medaglia è che questo ha creato un mercato, che oggi più che mai ha bisogno di regole. Le tutele tecnologiche e giuridiche finora usate sono infatti ormai datate e vanno riviste. Alcuni paesi, come Germania, Svizzera e Spagna stanno valutando l'idea di offrire diversi livelli di consenso, coi quali la persona può decidere se e come essere informata. L'Olanda è forse la più avanti, con tre opzioni: conoscere tutto sulla suscettibilità alle malattie, essere informati solo sulla patologia per la quale si è stati esaminati, avere informazioni su misura. E in Italia? Il nostro Paese – dice Alessandro Quattrone, direttore del CiBio (Centro interdipartimentale biologia integrata) e membro del Comitato etico dell'Università di Trento – ha regole simili a quelle di altri paesi Ue, ma che di fatto sono inadeguate: si dividono i dati anagrafici dal campione, e quest'ultimo si usa in modo completamente dissociato dalla persona. Però, ci sono studi che dimostrano come sia possibile risalire all'identità anche attraverso una frazione di Dna». Occorre perciò trovare il modo di continuare questi studi, che danno indicazioni importanti per la salute, slegandoli dal fattore remunerativo. «Fatto salvo che per me non si deve brevettare nulla del genoma umano, sono d'accordo che è necessario usare l'informazione genetica per migliorare la propria vita. Non so se questo significa democratizzare la genetica, ma è importante che questa informazione venga interpretata dal paziente in termini probabilistici e non deterministici. Anche perchè molti di questi dati riguardano la sfera del wellness, che è addirittura "pre-medico".

Sulla democratizzazione del gene Ilaria Capua, a capo del dipartimento di Scienze biomediche comparate dell'IzsVe, e che nel 2006 ha lanciato un network internazionale (Gisaid) per la condivisione online dei dati genetici dei virus dell'influenza aviaria, ha un altro parere: «Credo che la maggior parte della popolazione non sia in grado di dare un significato all'espressione di gene piuttosto che a un altro e anzi si corre il rischio di creare misundestanding con la lettura su internet. Quindi non so, da questo punto di vista, quanto funzionino quindi social network e forum. Sono invece d'accordo sul fatto che questo settore vada gestito nel migliore dei modi, cercando un'opzione rispettosa tanto della ricerca scientifica quanto della privacy del singolo. La "terza via" per me è quella intrapresa dall'Olanda, che ha "scelto di poter scegliere", con l'opzione opt-out si può decidere di entrare o meno in una biobanca e per quanto tempo. Sul fronte consenso informato, nella mia esperienza si è dimostrato più che altro un deterrente, che intimoriva. Nel ripensarlo bisognerebbe puntare su una scrittura comprensibile facendo capire i benefici di determinate operazioni». Il tempo stringe e senza che ce ne accorgiamo un "personal gene analyser" potrebbe già spuntare dietro l'angolo.

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