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Questo articolo è stato pubblicato il 08 luglio 2012 alle ore 17:03.

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«È come se gli editori avessero avuto un fidanzato cattivo per qualche anno». Clay Shirky è uno che riesce a farsi ascoltare, dagli editori, anche quando dice cose che non gradiscono. Ma il più delle volte lo ascoltano gli internettiani che riconoscono, nel suo modo di pensare, una chiave di interpretazione autentica delle conseguenze socio-culturali dei media digitali. I suoi libri, "Uno per uno, tutti per tutti" e "Surplus cognitivo" (tradotti da Codice), hanno messo in luce le opportunità culturali generate dalla collaborazione abilitata dalla rete. E hanno dimostrato come l'idea che gli editori avevano di sé nel contesto mediatico precedente è decisamente obsoleta. Incontrarlo a Ted significa anche potergli chiedere: ma chi era quel fidanzato cattivo?

«Per troppo tempo, i giornali hanno desiderato solo di conquistare inserzionisti pubblicitari e si sono trasformati in agenzie di informazione con alto volume e basso valore aggiunto. Ma il loro modello di costi era insostenibile rispetto al fatturato generato dal lettore. Anche perché quel lettore era casuale: arrivava da un motore di ricerca o da un social network e non si interessava al giornale». Ma tutto questo, gli editori, lo sanno bene. Quello che non sanno è come superare questo modello di business limitativo, che li porta all'ossessione di tagliare inesorabilmente i costi, col rischio di peggiorare il servizio e, alla fine, perdere lettori. Come possono, dunque, uscire da questa spirale? Shirky non spara certezze sul mondo dell'editoria. Sa che tutti i modelli devono essere sperimentati e che la strada per ridefinire il business è ancora lunga. Ma negli ultimi tempi ha visto casi risultati decisamente incoraggianti. «Collaboro a un rapporto sull'editoria americana che uscirà a dicembre. E posso già dire che il modello fondamentale, che potrebbe cambiare la prospettiva, è la membership: non il pagamento per leggere gli articoli, ma il contributo per essere membri del club dei lettori speciali del giornale». La differenza non è così sottile: «Il problema è che il giornale deve farsi pagare dai lettori.

E per riuscirci è cruciale il modo di presentare la proposta. Se il giornale si limita a imporre un prezzo per consentire la lettura di quello che ha offerto gratuitamente fino a quel momento, non fa una bella figura. E d'altra parte i lettori casuali non hanno nessuna intenzione di pagare, proprio perché non riconoscono il valore del giornale nel suo complesso. Ma un piccolo insieme di lettori, invece, ci tiene alla durata del suo giornale. Se un editore scopre che un 20esimo dei suoi lettori desidera che il giornale non muoia, ha trovato le basi di un modello di business credibile e sostenibile». A quel punto è quasi fatta.

Quasi. Perché il problema non è mettere un muro di sbarramento tra le informazioni e il pubblico, secondo Shirky. Primo perché non si devono perdere i lettori casuali che generano fatturato pubblicitario. Secondo perché sarebbe una mossa contraria a ogni logica internettiana. «Se Ted si fosse comportato come un editore tradizionale, non avrebbe regalato in rete i video delle sue famose lezioni in 15 minuti. E non avrebbe concesso a nessuno di produrre format analoghi al suo. Eppure Ted lo ha fatto e questo ha esteso enormemente la notorietà del suo marchio e l'ammirazione per i suoi contenuti». Il che ha portato un piccolo numero di persone a pagare migliaia di dollari per partecipare alle sue performance. «L'apertura del giornale è fondamentale per farlo esistere nell'esperienza delle persone. Ma tra queste se ne devono trovare alcune disposte a contribuire. E quelle vanno conquistate una per una all'idea di sostenere economicamente il giornale che considerano irrinunciabile e che per loro svolge un servizio dedicato di grande valore aggiunto». E, assicura Shirky, tra i giornali americani che hanno adottato questa strategia, i risultati cominciano a vedersi. Appuntamento all'uscita del rapporto.

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