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Questo articolo è stato pubblicato il 09 settembre 2012 alle ore 16:08.

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Le nanotecnologie stanno cambiando pelle. Da embedded si stanno trasformando in piattaforme, da passive stanno diventando attive. Se infatti alla nascita avevano una visibilità indiretta, perché impiegate per migliorare le performance di prodotti già esistenti, ora si tratta di pensare a sistemi basati solo o quasi esclusivamente su componenti nanometrici, in grado di creare strutture complesse e adattarsi agli stimoli esterni. In pratica, una nuova categoria di processi produttivi e di prodotti.

Facendo, però, i conti con principi di sostenibilità, economicità e benignità nei confronti dell'ambiente e dell'uomo. «Le nanotecnologie non sono né buone né cattive, dipende da noi usarle in maniera intelligente, cioè come una tecnologia abilitante che permette di manipolare la materia vivente copiando la natura – spiega Paolo Milani, ordinario di Struttura della materia all'Università di Milano –. Questo strumento potentissimo, però, oltre a richiedere un approccio integrato tra medici, fisici, ingegneri, informatici, ha anche bisogno di un nuovo modello di sviluppo.

Non si può pensare di bruciare continuamente carbone e poi pretendere che le nanotecnologie disinquinino l'aria...». In altre parole, la grossa rivoluzione delle nanotecnologie non è tanto il singolo elemento, ma il valore aggiunto è nel combinare questi mattoni nanometrici che fanno cose che non sono la semplice somma delle loro parti, in un contesto produttivo e normativo ben delineato. Per comprendere la dimensione del settore, basta qualche numero: negli Stati Uniti i materiali nanostrutturati nell'industria petrolifera e chimica influiscono per il 30-40%; nel mercato mondiale i semiconduttori con dimensioni inferiori ai 100 nanometri rappresentano oltre il 30%, e ben il 60% nel mercato Usa; solo nel 2010 il 15% della diagnostica avanzata e delle terapie molecolari si basa sulle nanoscienze.

Attraverso la National nanotechnology initiative (Nni), l'America ha investito negli ultimi dieci anni, 12 miliardi di dollari e dato 2mila posti di lavoro, un impegno secondo solo al programma spaziale. Secondo Mihail Roco, senior advisor for nanotechnology della National Science Foundation il mercato è assolutamente profit, «se consideriamo una tassa del 20% e la applichiamo ai 90 miliardi dollari che ha prodotto il mercato che incorpora nanotecnologie nel 2009, il risultato è pari a 18 miliardi, che supera l'investimento in R&S fatto dalla Nni». E ci stiamo già muovendo verso una nuova fase, definita nano 2. Se nel decennio 2000-2010 l'obiettivo si è incentrato sulla ricerca interdisciplinare su scala nanometrica, nel decennio in corso (2010-2020) si parla di integrazione e applicazioni di nanosistemi più complessi, che interessano nuovi ambiti, come la bio-nanofabbricazione, l'industria alimentare e le tecnologie cognitive. Lo sviluppo sarà rapido e irregolare. Ma perché tutto questo decolli occorrono programmi di finanziamento dedicati, e paternariati tra industria, università, organizzazioni internazionali e società. «Non si tratta solo di soldi, ma anche di cambio di mentalità – precisa Andrea Cuomo, vice president Advanced system technology alla StMicroelectronics, che insieme a Milani parteciperà alla tavola rotonda sulle prospettive delle nanotecnologie nell'ambito dell'Ottava conferenza mondiale sul futuro della scienza promosso dalle Fondazioni Umberto Veronesi, Giorgio Cini, Silvio Tronchetti Provera –. A partire dalla formazione universitaria, alla costruzione di infrastrutture (nano-hub di R&S), alla compilazione di norme internazionali (banche dati, brevetti, nomenclatura)».

Ma come si passa dall'infinitamente piccolo all'infinitamente complesso? «Questa è la grande sfida – dice Cuomo –. Tra qualche anno metteremo centinaia di miliardi di componenti su un chip che dialogano tra loro, e che dovranno dialogare con altri device, altrettanto complessi (internet delle cose, ndr)». La soluzione? «Recuperare lo spirito del Rinascimento. La metodologia scientifica seguita finora, quella del dividi et impera non funziona quando si arriva a dei livelli di complessità così elevati. E quindi si deve affrontare con la multidisciplinarietà. Una necessità per il futuro, in un mondo che richiede sempre meno profondità sistematica e sempre più networking». Un messaggio che l'università dovrebbe cogliere.

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