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Questo articolo è stato pubblicato il 09 settembre 2012 alle ore 16:04.

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C'è una miniera d'oro da mille miliardi di dollari su cui le aziende mondiali potrebbero mettere le mani, se imparassero a usare meglio le tecnologie social. Ma hanno appena cominciato a provarci: lo dice uno studio estivo di McKinsey («The social economy: Unlocking value and productivity through social technologies»). «E in Italia siamo persino in ritardo, rispetto alla media globale, su questo percorso», aggiunge Bruno Pellegrini, tra i maggiori esperti italiani di digital media e social business (fondatore di TheBlogTv, che aiuta le aziende a usare gli strumenti social per il business).

Il potenziale non sfruttato è enorme, per McKinsey: tra i 900 e 1.300 miliardi, per l'esattezza. Il motivo è che «social non è una tecnologia, è una feature», si legge nel rapporto. A quasi tutte le attività business si può dare una marcia social, insomma, e così aumentarne il valore: per conoscere meglio i propri clienti, potenziare la ricerca e sviluppo, comunicare in modo più efficiente all'interno dell'azienda.

Le cifre rilevate da McKinsey sono infatti la somma di fonti disparate di valore. Circa 345 miliardi verrebbero dallo sviluppo prodotti e operazioni correlate; 500 miliardi dal marketing e dalle attività di vendita e post vendita; 230 miliardi dalle attività di supporto al business.

Le tecnologie social migliorerebbero la comunicazione, la coordinazione e la collaborazione in queste aree. Per esempio: l'azienda con il crowdsourcing può migliorare la Ricerca & Sviluppo, costruendo laboratori in cui dialoga con i clienti e utilizzando piattaforme per mettere insieme intelligenze collettive mondiali. «Due terzi dell'R&D di Procter&Gamble viene da community di crowdsourcing come Innocentive, 99Sigma, YourEncore – spiega Pellegrini –. L'azienda manda una richiesta anonima a queste community, popolate di scienziati o professionisti. Per esempio: inventatemi un panno che cattura la polvere. I membri della community danno una soluzione; la migliore viene adottata e pagata».

Nel marketing e nelle vendite è possibile elaborare la comunicazione insieme con i clienti, ascoltando le loro opinioni sul brand e sui prodotti. L'azienda può creare social network dedicati in cui il cliente viene coinvolto in una conversazione. Vodafone Italia fa qualcosa di simile su Vodafone Lab, piattaforma in cui gli utenti testano nuovi servizi dell'operatore e danno consigli su come migliorarli. Secondo McKinsey, il social – se utilizzato al meglio – potrebbe influenzare un terzo della spesa dei consumatori.

Il social può migliorare il servizio ai clienti e far risparmiare: gli utenti possono aiutare altri utenti a risolvere i propri problemi. Da tempo lo fanno in Dell, in Microsoft, ma anche in Telecom Italia (tramite Twitter).
Gli strumenti social permettono ai dipendenti di collaborare meglio, di ridurre le e-mail del 25 per cento e del 35 per cento il tempo speso per la ricerca di informazioni. Ne deriva, secondo McKinsey, un aumento del 20-25 per cento per la produttività nelle grandi aziende.

Solo il 3 per cento delle imprese mondiali però utilizza bene le tecnologie social, secondo lo studio. «Almeno nei Paesi anglosassoni ci stanno provando, con casi notevoli come Walmart, Nokia, Ibm, Unilever, Ikea. Le aziende italiane non si pongono ancora nemmeno il problema – dice Pellegrini –. Il social genera valore perché libera l'accesso alle risorse esterne e permette di sfruttarle. Questo fenomeno incontra resistenze nelle aziende perché imporrebbe loro di riorganizzarsi, di rivoluzionare alcuni reparti. Chi ne detiene il potere non vuole perderlo e così si chiude al nuovo».

Ma è un processo inevitabile: l'ascesa del social è figlia di un cambio di paradigma più generale. «Stiamo abbandonando il modello fordista-taylorista di azienda, chiusa e gerarchica. La collaborazione per il business diventa orizzontale, globale, aperta all'esterno».

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