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Questo articolo è stato pubblicato il 05 ottobre 2012 alle ore 18:46.

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Quando sente parlare di agenda digitale, incentivi alle startup e decreti legge Jason Best sembra cadere dalle nuvole. «In linea di principio - riflette - la miglior ricetta è quella di dare molta libertà agli imprenditori e poche ma buone regole». Jason Best è un guru, ha convinto Obama a legalizzare il crowdfunding, per lui gli innovatori non devono chiedere permesso. Il nostro Paese però non è la Silicon Valley e forse non lo sarà mai: siamo in ritardo su banda larga, e-commerce (solo il 15% degli italiani acquista online), alfabetizzazione informatica e digitalizzazione della Pa. Solo 38 milioni di italiani accedono alla rete ma molti meno la sanno usare. Uno studio di Accenture, su dati 2011, calcola che lo spread digitale tra Italia e Germania è dieci volte quello tra Bund e Btp.

Eppure, per la prima volta, dall'alto, dopo una gestazione lunghissima è arrivato un pacchetto di misure che accelera l'ingresso in rete della nostra società civile e imprenditoriale. Il decreto Sviluppo bis - lungi dall'essere una versione pdf di quanto avviene da tempo all'estero - impone uno switch off verso il digitale senza precedenti: obbliga la Pa a stracciare la carta, i cittadini a privilegiare la moneta elettronica, i medici a sostituire il ricettario con le prescrizioni online, gli insegnanti a imparare dai nativi digitali, le imprese a investire in startup, gli amministratori pubblici a cambiare processi organizzativi.

Siamo davvero al cittadino 2.0. L'online che entra per legge e in forza nell'organizzazione dei sistemi informativi delle amministrazioni pubbliche avrà effetti dirompenti. Ma solo sulla carta. «In un paese in cui il vero digital divide è culturale il decreto porta un gran beneficio - riflette Andrea Rangone a capo degli Osservatori Ict del Politecnico di Milano -. Tuttavia, è fortemente sbilanciato su una dimensione dell'innovazione digitale, quella relativa alla Pa che è solo una fetta. Ad esempio per le Pmi non ci sono incentivi fiscali, contributi a favore dell'innovazione digitale, nessun riferimento a progetti strategici per il nostro ecosistema di imprese, come l'e-commerce e la fattura elettronica». Inoltre, aggiunge il professore del Politecnico di Milano «ho due preoccupazioni: se è vero che lo switch off avrà benefici diretti su Pa e cittadini e indiretti sulla spesa in Ict, mi domando se la macchina pubblica sarà in grado di recepire e concretizzare tutte queste direttive sotto il profilo organizzativo». Ma soprattutto se «sapranno trovare i fondi per finanziare queste trasformazioni».

Nella sanità ad esempio i sistemi informativi non si parlano tra loro, il fascicolo sanitario elettronico è presente in forma completa solo in due regioni (Emilia-Romagna e Lombardia): molto dipenderà dal passaggio alle Camere del decreto, dai decreti attuativi, insomma l'iter è ancora lungo. Inoltre, accusa Guido Scorza avvocato ed esperto di diritti digitali: «Non c'è iniziativa, tra quelle disegnate dal Governo, che non preveda il coinvolgimento di una pletora di ministeri, enti e autorità diverse che dovrebbero - ma è difficile credere che accadrà mai - mettersi, celermente, d'accordo per varare regole e norme di attuazione».

La buona notizia, commenta Federico Morando, economista e managing director del Centro Nexa, è che «sono stati rimossi non solo tutti gli ostacoli per una Pa che voglia mettere in pratica politiche open data incisive: l'open data non dovrà più essere l'eccezione. A voler trovare un difetto, dal punto di vista giuridico, sarebbe stato meglio modificare la legge sul diritto d'autore, sancendo direttamente lì che i dati pubblici sono parte del pubblico dominio. Detto questo fatta l'Italia open, però, bisogna fare gli italiani open».

Più convincente il pacchetto sulle startup ma più che altro nell'impianto che per la prima volta guarda alle imprese innovative come a un ecosistema dove si vince se vincono tutti. Se però l'urgenza era quella di dare liquidità al sistema l'obiettivo è stato raggiunto solo in parte. «Gli incentivi fiscali offerti agli investitori privati sono sicuramente benvenuti ma difficilmente riusciranno ad attirare grandi capitali - riflette Marco Villa co-founder di Iag -. Statisticamente, il 50% delle startup fallisce, poter detrarre parte delle perdite è molto più importante rispetto a qualunque altro incentivo di natura fiscale».

Anche gli startupper ringraziano cortesemente ma chiedono di più: Iva agevolata per vendere contenuti digitali (e non) online, una tassazione sul lavoro in linea con quella degli altri paesi per attirare professionisti dall'estero e misure di stimolo al mercato. Temono che i soliti furbetti possano hackerare il sistema e vendersi un'anima innovativa che non hanno. «Ma il vero timore - commenta Andrea Di Camillo partner del fondo Principia - è la discontinuità politica». Il decreto è solo l'inizio.

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