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Questo articolo è stato pubblicato il 14 ottobre 2012 alle ore 16:43.

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Sir James Dyson, fondatore dell'azienda di elettronica di consumo che porta il suo cognome e inventore tra l'altro dell'aspirapolvere senza sacchetto, non è uno che butta i soldi dalla finestra. Dopo aver investito 8 milioni di dollari nell'incubatore della sua università ha spiegato a Fast Company's Co.Design: «Le menti più brillanti vogliono diventare i prossimi Mark Zuckerberg o Larry Page. Lo capisco, il digitale è in subbuglio ma esiste anche l'ingegneria. E l'hardware dà profitti».

L'invito di Dyson può essere letto come una indicazione chiara per gli startupper ma anche come una critica velata all'eccesso di iniziative legate al digitale. In realtà se si guarda agli investimenti dei venture capital in Italia si scopre che il 2010 è stato l'anno del cleantech e del farmaceutico, il 2011 ha visto l'information technology più attraente in termini di operazioni di finanziamento e quest'anno si preannuncia un testa a testa tra it e medicale. In generale sono tre i capitoli che descrivono la scena delle startup: la prima "scatola" è piuttosto ampia e contiene tlc, media ed ecommerce, poi ci sono le iniziative imprenditoriali legate alle scienze della vita (biotecnologie, biomedicale e medicina) e all'energia (cleantech, smart grid ed energy storage).

Sotto il profilo del business, del timing dell'exit e dell'ammontare degli investimenti parliamo di aziende diversissime tra loro. Più lunghi i tempi per arrivare al "prodotto" nel settore farmaceutico o di life science, più facile e meno costoso lanciare un sito di ecommerce. «In realtà non è proprio così semplice – spiega Diana Saraceni general partner di 360 Capital Venture – È vero che, in teoria, portare hardware sul mercato richiede più tempo che lanciare un social network. Ma gli investimenti non sono così distanti. O quantomeno non lo sono più. In passato quando è nata Mutui online sono bastati pochi milioni di euro.

Oggi c'è più competizione, la visibilità ha un costo. Ragionevolmente il ticket medio per lanciare e far crescere una società con l'ambizione di non restare a vita una nanocompany non può essere inferiore ai dieci milioni di euro».

In termini di efficienza di capitale la distanza tra i diversi settori si sta affievolendo. «Quando investiamo – commenta Nicola Redi, chief investment & technology officier di TTVenture – ci dobbiamo chiedere cosa sarà del mercato dei prodotti derivati dalle tecnologie delle nostre partecipate fra 7 o 10 anni. Per questo motivo i settori per noi interessanti sono quelli trainati dalle macro tendenze economiche e sociali, non dalle mode dell'ultima ora. In particolare vediamo nuovi bisogni generati dall'evoluzione demografica (crescita della popolazione e suo invecchiamento nei paesi sviluppati) collegata allo sviluppo sostenibile e ai cambiamenti climatici. Le tecnologie che oggi potranno soddisfarli sono quelle legate a sanità, acqua, energia e agricoltura». Più nello specifico, spiega Redi, in ambito sanitario in evidenza c'è la medicina personalizzata, la diagnostica e la prevenzione (in oncologia, cardiologia e disturbi neurodegerativi).

«Peraltro – aggiunge Saraceni – contrariamente a quanto avviene per il digitale, dal punto di vista normativo, nel settore medicale e della diagnostica abbiamo come Europa un vantaggio rispetto agli Stati Uniti. Sia in termini di tempi che di costi da noi è più facile portare un prodotto sul mercato. Inoltre, la classe medica europea pare più ricettiva verso le tecnologie dell'eHealth. E anche più creativa». Nel farmaceutico si devono scordare i tempi delle molecole blockbuster: secondo i dati 2010 dell'Institute of Medicine i costi per la ricerca di una nuova molecola sono incrementati di 50 volte dal 1975 ad oggi, a fronte di un output complessivamente stabile. Più in generale non si tratta di tecnologie che si sviluppano in tempi stretti come un'app e per raggiungere il mercato hanno bisogno di partner strategici (grandi imprese): «I ricercatori che stanno pensando alla loro startup in questi ambiti dimentichino le Ipo dopo pochi anni di vita – sottolinea Redi – ma immaginino un percorso di crescita industriale che li dovrà inevitabilmente vedere affiancati da manager e da gruppi industriali».

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