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Questo articolo è stato pubblicato il 18 novembre 2012 alle ore 15:08.

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Si chiama Bib, ha l'ltezza di un bambino e parla con la voce di una vecchia signora di Malmö. Bib è un robottino buffo e dotto, da qualche giorno incaricato di accompagnare i giovani visitatori del Museo della tecnica della città svedese. Ma l'impiego della tecnologia nei musei è in genere molto meno appariscente, più sottile e pervasivo: sta di fatto ridisegnando il modo in cui i musei svolgono la loro funzione. Il livello interessato oggi in maniera più evidente è quello della relazione con il visitatore, che occupa una posizione via via più centrale, fino a determinare scelte pubbliche: certo non è un'esperienza facilmente replicabile, ma il blog theoatmeal.com lo scorso agosto ha raccolto su Indiegogo in 9 giorni un milione di dollari che insieme agli 850mila messi a disposizione dallo Stato di New York andranno a finanziare un museo dedicato all'ingegnere e inventore Nikola Tesla (sovvenzione pubblica che alcuni avrebbero preferito fosse destinata ad altro scopo culturale).

L'esperienza del visitatore, lungi dal risolversi entro il limite determinato dalla visita all'istituzione museale, inizia prima, prosegue dopo, e può essere del tutto svincolata dall'esperienza fisica. In senso letterale, come nel caso del Chrome Web Lab, in collaborazione con lo Science Museum di Londra, che permette a più utenti simultaneamente di suonare via web degli strumenti musicali presenti sia in forma virtuale sia in forma fisica nello spazio del museo. Ma soprattutto in senso lato, grazie alle proiezioni digitali delle collezioni, delle mostre e degli eventi curate dalle stesse istituzioni o implementate da soggetti terzi, come Google Art Project. Oltre a replicare in una dimensione virtuale spazi realmente esistenti, a riproporre collezioni disperse (tra gli esempi ormai "storici" quello del museo di Kabul, distrutto dai talebani) o impossibili nel mondo fisico (runme.org che colleziona progetti di software art e Gallery 9 del Walker Art Center o le commissioni del Whitney per la serie di opere digitali Codedoc), per i musei la rete si presta come canale aggiuntivo. Per raggiungere nuovi pubblici o consolidare la relazione con il pubblico esistente (vedi sul sito del Sole le interviste sull'impiego dei social network fatte da Alessandro Mininno a Luca Melchionna, responsabile comunicazione web del Mart, e a Geer Oskam, project manager della notte bianca dei musei di Amsterdam); con finalità didattiche o di approfondimento (come l'eccellente offerta online di istituzioni quali la Tate o lo Smithsonian); o per rinsaldare il rapporto con il territorio (Brooklyn Museum). Sempre più spesso su internet o attraverso le app dei musei il visitatore ha la possibilità di costruirsi percorsi di visita autonomi, preparandoli in anticipo, tornandoci sopra in seguito, costruendo proprie gallerie (vedi la app del Moma Explorer o l'impiego del social network Pinterest).

Quello digitale è un layer che va ad aggiungersi a quello fisico, "aumentando" la realtà (come nelle app dello Streetmuseum di Londra), ed entrando sempre più prepotentemente anche dentro le mura fisiche del museo. Il registro è talvolta ludico, così da enfatizzare la curiosità e la motivazione del visitatore, come in Tate Trumps, una app che trasforma la visita in una sfida tra amici, inducendo al contempo un confronto critico con le opere. In generale grazie all'impiego sempre più diffuso del cellulare dentro al museo il layer digitale consente di tagliare l'esperienza del visitatore sulle sue esigenze. Un ruolo importante a riguardo lo giocherà il cosiddetto indoor mapping, la mappatura digitale degli spazi interni degli edifici di pubblico accesso, già avviata da Google a passo spedito in una ventina di musei.

L'impatto è a doppio senso: la possibilità di rendere accessibile quantità enormi di informazioni sulle collezioni, gli autori, i contesti, nonché sulle reazioni del pubblico, obbliga a ripensarsi profondamente. Cosa collezionare e come, e di che cosa disfarsi? Se i contenuti di un museo sono dati "in pasto" al pubblico, che può virtualmente ricombinarli e commentarli, come ridefinire le funzioni di curatela e di guida (al Moma a far da guida ai più piccoli sono bambini poco più grandi: Moma Unadultarated)? Qual è il valore aggiunto di una mostra fisica, se in versione digitale possiamo osservare un'opera più a lungo e più in profondità, con maggior dettaglio, con maggiori informazioni di contorno? Tutte domande che lungi dal mettere in crisi i musei costituiscono occasione di rilancio della loro funzione sociale.

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