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Questo articolo è stato pubblicato il 27 gennaio 2013 alle ore 15:16.

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Liberare il mondo dal controllo diabolico di Mundus, antagonista dalla potenza immensa e dalle tentacolari derive nella finanza, nei media e nei beni di consumo, mefistofelica bibita ufficiale compresa. Questa la missione di Dante, nephilim – mezzo demone mezzo angelo – controllato dal giocatore e protagonista del reboot action hack and slash – leggasi: botte Urbi et Orbi – appena pubblicato da Capcom.

Con next gen e realtà virtuale, reboot sarà fra i concetti chiave del 2013 videoludico. Non che il fenomeno sia del tutto positivo: la riproposizione rivista e aggiornata di titoli che hanno fatto la storia del settore tradisce una stasi creativa conclamata. In una sorta di eterno ritorno, le nuove proprietà intellettuali oggi non arrivano al 5% della produzione complessiva.

Capita tuttavia che un'eccezione confermi la regola e che un gioco "rivitalizzato" riservi sorprese piacevoli. È proprio il caso di Dmc Devil May Cry, il rebranding a opera dell'inglese Ninja Theory della saga giapponese dedicata alle gesta dantesche con oltre 10 milioni di copie vendute dal debutto, nel 2001. Una saga peraltro considerata capostipite di un sottogenere, l'extreme combat, in cui gameplay e coordinazione manuale dell'utente sono ben più importanti di pathos e sviluppi narrativi; in questo caso goffamente incentrati sulle origini del protagonista. Dmc non solo attesta la crescita europea nel settore rispetto al fu colosso del Sol Levante, ma lo fa ritoccando con qualità due roccaforti del titolo: meccaniche ludiche ed estetica.

Nel primo caso lo studio di Cambridge ha lasciato immutata la fluidità dei combattimenti già nota ai fanatici di Dante – specie in Dmc 3 –, salvo implementarla con sessioni platform capaci di rendere il gioco meno monotono. Nel secondo si è permessa un restauro completo del look and feel, affidandolo alla sensibilità ibrida di Talexi, al secolo Alessandro Taini, art director di chiare origini italiane. Il risultato costituisce l'elemento più convincente di Dmc e svela radici sparse fra il cinema – di Nolan soprattutto – l'animazione nipponica e la tradizione pittorica occidentale. «Amo utilizzare i grandi maestri come riferimento – conferma a Nova24 Talexi (talexiart.com) –, rende le cose più facili per lo spettatore, permettendogli di capire, magari inconsciamente, che tipo di atmosfera evocano le immagini.

Caravaggio è di certo affine a Dmc per il tipo di utilizzo della luce. Lo stesso vale per Dalì; quando hai piattaforme sospese o architetture visionarie occorre giustificarle. Ma se il riferimento dichiarato è certo surrealismo, tutto diventa accettabile». Evidentemente anche per i boss di Capcom. «Non avevo un passato videoludico quando, nel 2004, sono arrivato a Ninja Theory. E credo che questa mia estraneità li abbia convinti. Capcom deve aver pensato lo stesso. Ci ha spronati a fare qualcosa che fosse molto personale, senza grossi vincoli rispetto alla serie. E senza ripensamenti». Capita solo quando il reboot conferma la regola.

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