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Questo articolo è stato pubblicato il 03 marzo 2013 alle ore 15:14.

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La Commissione europea nel Piano d'azione 2020 per l'imprenditorialità afferma che va riaccesa la fiamma dello spirito imprenditoriale in Europa. Ciò si rende indispensabile dal momento che «per riportare l'Europa sul sentiero della crescita e su più alti livelli occupazionali, ci vogliono più imprenditori». Purtroppo, nell'Unione si è inceppato quel potente motore di crescita economica e creazione di lavoro che è l'imprenditorialità. Non solo dal 2004 è caduta in 23 dei 27 paesi dell'UE, Italia inclusa, la quota di persone che preferiscono mettersi in proprio anziché lavorare alle dipendenze, ma anche la crescita delle startup europee è stata molto più lenta che negli USA e nei paesi emergenti. Sono così poche quelle che fanno il loro ingresso nel gotha delle più grandi imprese mondiali.

Mal comune non è mezzo gaudio. Lo dicono i dati per l'Italia resi noti dal Global Entrepreneurship Monitor 2102, curato dal Professor Moreno Muffatto dell'Università di Padova. Se osserviamo il livello dell'attività imprenditoriale allo stadio iniziale ("early stage") che considera l'incidenza delle start-up (imprenditorialità nascente) e delle nuove imprese (fino a tre anni e mezzo dall'inizio dell'attività) all'interno della popolazione adulta (compresa tra i 18 ed i 64 anni), ebbene l'Italia è in coda alla classifica dei paesi trainati dall'innovazione. E restiamo il fanalino di coda tra i quattro grandi dell'Unione Europea. La tabella qui in alto segnala quanto allarmante sia lo spread imprenditoriale accusato dal nostro paese verso gli altri tre big dell'Unione. E ancora più grave appare il ritardo accumulato nella nascita di imprese trainate dalle opportunità che s'intravedono all'orizzonte dell'innovazione anziché dalla necessità che fa capolino dell'alta montagna della disoccupazione.

Se non bastasse, il timore di fallire agisce da freno alla creazione d'impresa. La quale è anche una madre sterile di occupazione.
Per contrastare l'affievolimento delle pulsioni imprenditoriali e la bassa crescita delle imprese che nascono, tra le azioni prioritarie da mettere in campo la Commissione individua l'investimento nell'istruzione imprenditoriale. Un investimento dai rendimenti elevati. Infatti, circa il 15-20% degli studenti che partecipano a programmi di "mini imprese" organizzati dalle scuole secondarie lancia successivamente una startup. È questa una percentuale da tre a cinque volte maggiore di quella riferita all'intera popolazione.

Il Global Innovation Barometer per il 2013 indica pressione molto alta per la priorità assegnata dai tremila top manager intervistati alla cultura imprenditoriale nelle scuole. Quando, come in Finlandia e Corea del Sud, splende alta sin dalle elementari la fiamma dell'imprenditorialità (la Finlandia ha dotato di "classi imprenditoriali" anche l'istruzione primaria), le valutazioni degli allievi appaiono notevolmente migliori a fronte di una relativamente contenuta spesa cumulativa per studente. Lo dimostrano i risultati PISA (il Programma dell'OCSE per la valutazione internazionale dell'allievo) dei due paesi sopra citati: nel 2009 sono stati di circa 100 punti superiori all'Italia che ha registrato una spesa cumulativa maggiore di 30 mila dollari a potere d'acquisto equivalente. Resta così in piedi la domanda sul come muovere la conoscenza dai punti di origine (scoperte e invenzioni) per giungere agli sbocchi imprenditoriali. Nel quadro internazionale ci troviamo in posizioni di buona classifica nel rapporto tra fertilità di idee e capacità di commercializzarle.

Con un indice di creazione in termini di brevetti inferiore alla Germania, siamo in sua prossimità sull'asse della commercializzazione. Tuttavia, c'è ampio spazio di miglioramento. E la scuola molto può contribuirvi.
Se, come sostiene l'economista statunitense William Baumol, è l'imprenditore il principale motore dell'innovazione, spetta alla scuola rendere familiari i tanti sentieri imprenditoriali, distinguendo i buoni dai cattivi. C'è differenza tra l'imprenditorialità produttiva che provoca lo sviluppo dell'economia, l'imprenditorialità improduttiva che coglie le opportunità a fini unicamente personali, così azzerando i benefici sociali, e l'imprenditorialità "corrosiva" che sfrutta rendite di posizione per ritagliarsi, grazie alla spesa pubblica, fette sempre più grandi del reddito nazionale. Una cosa è l'imprenditore replicante che dà vita a imprese del tutto simili a quelle attorni a lui; un'altra l'imprenditore innovativo che produce nuovi beni e servizi per nuovi mercati.

Da qualche anno le nostre scuole organizzano e partecipano a competizioni imprenditoriali che vedono gli studenti gareggiare per la stesura di business plan. Entrano in gioco contabilità e formalità contrattuali. Questo non è però il cibo ricco di quelle sostanze che nutrono l'imprenditorialità innovativa. La frontiera va spostata in avanti, verso iniziative d'apprendimento e sperimentazione imprenditoriale. Servono esperimenti che invoglino gli studenti a trovare un equilibrio tra la soggettività dello zelo imprenditoriale e l'oggettività dei molteplici problemi da affrontare per portare la conoscenza alla destinazione finale: quella della creazione di startup innovative.

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