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Questo articolo è stato pubblicato il 24 dicembre 2012 alle ore 12:24.
Calma piatta nel mercato dei capitali a rischio. E non solo. «Globalmente il mercato del fundraising rimarrà stabile a quota 300 miliardi di dollari. A oggi quello del private equity non supera i livelli raggiunti alla fine del 2007. E anche sul fronte dell'investimento early stage (finanziamento delle nuove iniziative o startup ndr) il mercato in Europa è fermo». Ian Steele, global merger& acquisition leader della Deloitte è abbastanza caustico quando si nominano le startup.
«Il 70% delle nuove imprese fallisce», sottolinea il capo analista del mercato mondiale del M&A, per molte ragioni, aggiunge, legate alle condizioni di mercato, alle criticità infrastrutturali europea ma tutti riassumibili nella crisi che sta investendo il vecchio continente.
Nulla di nuovo, quindi. Eppure, qualcosa potrebbe muoversi anche per i nostri nuovi imprenditori. Anzi, più che qualcosa, qualcuno. Secondo Steele, occorre guardare alla liquidità delle aziende, delle grandi aziende che oggi hanno bisogno di innovazione. Da quel serbatoio possono arrivare offerte di acquisto, in particolare rivolte alle startup più innovative. «Nei prossimi tre anni l'Europa sarà interessata da operazioni di M&a, in particolare da parte dei Bric (Brasile, Russia, India e Cina ndr)». Secondo l'analista di Deloitte che domani sarà ad Assolombarda a Milano al convegno annuale dell'Aifi (Associazione italiana del private equity e del venture capital) a parlare appunto di private equity, «le condizione sono fertili per assistere a operazioni di consolidamento sia su dimensione nazionale che tra Paesi. In particolare, se prendiamo in esame i Bric negli ultimi sei anni l'attiva di M&A è scesa in termini di numero di operazioni ma è salita del 38% in valore». Questo trend, assicura, riceverà nuova vitalità nei prossimi tre anni.
Per il mercato italiano dell'early stage sarebbe una novità straordinaria. Dal 2009 al 2011 le operazioni di disinvestimento sono almeno una quarantina. E i casi più clamorosi vedono gli Stati Uniti come nazione ospitante delle multinazionali. Ad agosto aveva sollevato non poche discussioni sul web la notizia dell'acquisizione di Viamente. L'operazione del valore di 4,5 milioni di dollari in contanti ha spinto i «ragazzi» della software company milanese a fare allegramente armi e bagagli alla volta degli Stati Uniti. In Italia qualcuno in rete, i soliti, hanno lamentato il rischio di trasformarci in una terra d'allevamento di piccole aziende destinate a emigrare all'estero in mercati più liquidi e più dinamici. Stesso discorso, e stesse lamentale, erano state espresse qualche mese prima, ad aprile quando gli inglesi di Daily Mail hanno speso 30 milioni di euro per Jobrapido. Quella del fondatore Vito Lomele è nel digitale la secondo operazione più importante dal punto di vista finanziario degli ultimi cinque anni dopo la vendita di Giocodigitale a Bwin.
Ma non ci sono solo le internet company. Chi teme l'esportazione di startup dimentica che esportare cervelli è un riconoscimento di una competenza. Se domani dovessero arrivare big cinesi o indiani a interessarsi ai nostri nuovi imprenditori sarebbe solo una benedizione. E la conferma che il sistema Italia si è mosso nella direzione giusta.
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