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Questo articolo è stato pubblicato il 24 marzo 2013 alle ore 12:40.
Professione: driver di rover su Marte. Non fa un lavoro comune Paolo Bellutta, 55 anni, fisico italiano, dal 1999 membro del team della Nasa di Pasadena, che ha portato su Marte prima Spirit e Opportunity e ora Curiosity. È di fatto il custode, praticamente ventiquattr'ore su ventiquattro, della sonda che sta svelando i segreti del pianeta rosso. La sua giornata, e quella dei sei colleghi del Jet Propulsion Laboratory (Jpl) che lavorano con lui al progetto, è scandita dai tempi marziani.
«Le giornate marziane, che chiamiamo Sol, iniziano verso le 9-10 del mattino, in quello che viene definito il Mars Time – racconta il fisico italiano –. Marte compie una rivoluzione sul suo asse in 24 ore e 39 minuti, quindi il giorno inizia sempre 39 minuti più tardi rispetto a noi e ciò significa che ogni giorno l'orario in cui iniziamo a lavorare è diverso. Nelle prime ore del mattino la temperatura, che di notte raggiunge i 90° sottozero, si alza, e ciò permette di mettere in movimento motori ed elettronica di bordo. Solitamente a quell'ora si fanno osservazioni in remoto, utilizzando le telecamere installate sulla testa panoramica dei rover. Più tardi, verso le 11-12 (sempre ora locale), quando la temperatura raggiunge i -20°C, i rover ricevono dalla Terra la lista di comandi per eseguire le attività durante il resto della giornata e nottata successiva: spostamenti del veicolo o movimenti del braccio robotico, tutti comandi di cui è responsabile la squadra dei drivers».
Altre attività includono l'uso delle telecamere per riprendere la zona raggiunta dai rover o di documentazione delle attività del giorno. «Dalle 3 alle 5 del pomeriggio i rover trasmettono i risultati, mentre dopo il tramonto di solito vengono spenti o eseguono attività compatibili con temperature molto basse, che non implicano movimenti meccanici, che sarebbero troppo rischiosi. Il giorno dopo si ricomincia: i rover non sono mai a corto di cose da fare».
Ma come è arrivato Bellutta a lavorare, unico italiano, al Jpl? Lo ha raccontato lui stesso pochi giorni fa, in un collegamento con i ragazzi che partecipavano alla First Lego League al Museo di Rovereto, un torneo internazionale di robotica per giovani. L'approdo alla Nasa, ha ricordato, è stato quasi casuale: «Nella primavera del 1999 vidi su internet un annuncio del Jet Propulsion Laboratory (Jpl) di Pasadena: cercavano personale esperto in elaborazione di immagini. Senza molte speranze spedii il mio cv, ma quindici minuti dopo mi chiamò colui che poi sarebbe diventato il mio capo. Appena arrivato negli Stati Uniti ho iniziato a lavorare sui robot sviluppati per il Dipartimento della difesa, ma a partire dal 2004 ho dedicato tutto il mio tempo ai progetti rivolti al pianeta rosso». È di quell'anno, infatti, il primo atterraggio su Marte delle progenitrici di Curiosity, Spirit e Opportunity, molto più piccole di quest'ultima. La prima ha smesso di funzionare nel 2010, per mancanza di energia, mentre la seconda sta ancora lavorando sulla riva occidentale del cratere Endeavour. Curiosity, da parte sua, ha consentito un salto di qualità alle informazioni ricevute dal pianeta, poiché ha molti più strumenti scientifici e riesce a destreggiarsi tra ostacoli che le "sorelle" non riescono a superare.
Costantemente monitorata da Pasadena. Raccontato così, il lavoro del fisico italiano sembra quasi routinario, ma poiché si tratta di manovrare robot che stanno a 560 milioni di chilometri, le difficoltà sono all'ordine del giorno. Così come gli incidenti di percorso. L'ultimo, recentissimo, ha causato uno stallo temporaneo, ma per fortuna la faccenda è stata risolta. «La sfida più grande – spiega il ricercatore – è realizzare una macchina che riesca a far fronte a situazioni inaspettate. Sebbene abbiamo raccolto tante informazioni riguardo all'ambiente marziano, restano molte incognite e il rover deve essere pronto per rispondere, spesso in tempi strettissimi, a pericoli che possono avere effetti catastrofici come variazioni di pressione e temperatura atmosferica, orografia del terreno e possibili malfunzionamenti».
Per migliorare le prestazioni, sottolinea Bellutta, bisognerebbe avere dei computer di bordo più veloci, o più spazio a bordo per immagazzinare dati e immagini e telecamere a risoluzione più elevata. Ma tutto ciò si scontrerebbe con il limite più grande della missione: la distanza. Il canale di comunicazione tra Marte e Terra ha infatti già difficoltà a sostenere la quantità di dati raccolti.
Non è quindi ipotizzabile estendere significativamente queste prestazioni oltre i limiti attuali. Piuttosto, secondo Bellutta, l'ideale sarebbe avere sonde orbitanti attorno a Marte che permetterebbero di trasmettere verso Terra almeno 10 o 20 volte più dati di quanto si riesca a fare oggi. In aprile i driver andranno in relativa vacanza, perché Marte è occultato dal Sole e il contatto con le sonde si perde. In maggio, però, inizierà il tragitto di Opportunity verso la base di Mount Sharp, la montagna alta 5mila metri al centro di Gale Crater. Un percorso lunghissimo, di 9 km, che tocca a Bellutta immaginare e rendere sicuro.
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