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Questo articolo è stato pubblicato il 07 aprile 2013 alle ore 14:30.

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L'Economist, peraltro sempre molto compassato, le ha dedicato qualche mese fa la copertina, definendola "una terza rivoluzione industriale" – di che cosa si tratta? L'idea è semplice: tutte quelle macchine a controllo numerico che sono state sviluppate negli ultimi decenni stanno oggi diventando disponibili a un pubblico sempre più ampio. E, in questo modo stanno prospettando grandi cambiamenti nel mondo della progettazione e della produzione industriale.

Il principio di questi sistemi è facile da descrivere: alla base c'è il cosiddetto processo file-to-factory, che consente una connessione diretta tra il mondo digitale (un comune pc) e quello fisico – quest'ultimo quasi sempre costituito da un sistema meccanizzato di movimentazione basato su semplici traslazioni o rotazioni. All'estremità di questo meccanismo poi si trova in generale un utensile, che permette di effettuare lavorazioni di tipo diverso: togliere del materiale (come, ad esempio, in una fresa o una taglierina laser) oppure aggiungerlo. Quest'ultima funzione è quella a cui appartengono oggi alcune delle macchine più interessanti: le stampanti tridimensionali, che depositando gocce di materiale una sull'altra e che permettono quindi di mandare in stampa non un foglio di carta ma un oggetto di qualsiasi geometria. È il passaggio dal mondo dei pixel – quadratini colorati sui quali si basano i normali processi di stampa, come quello della pagina di giornale che state leggendo – a quello dei voxel, piccoli cubetti tridimensionali, simili a minuscoli Lego, con i quali si può costruire qualsiasi oggetto.
Intendiamoci: oggi non siamo ancora capaci di "stampare" da cima a fondo un frullatore o il computer su cui sto scrivendo.

Tuttavia siamo già in grado di stampare pezzi complessi di uno o più materiali. Le prime stampanti tridimensionali sviluppate al Mit oltre dieci anni fa creavano degli oggetti molto primitivi: modellini di polvere tenuta insieme da resine, che riuscivano al massimo a suggerire la forma di un oggetto in tre dimensioni. Negli anni successivi siamo passati a delle stampanti con resine anche molto resistenti, permettendo quindi di realizzare dei prototipi utilizzabili. Oggi stiamo entrando in una terza fase, in cui si possono creare veri e proprio oggetti finiti, magari di metallo. General Electric, ad esempio, sta iniziando a produrre i motori dei jet – molto difficili da realizzare con metodi tradizionali – con sistemi di stampa tridimensionale.

Quali possono essere le conseguenze di questi cambiamenti per le nostre città? Il primo fenomeno che si sta iniziando a verificare alla scala globale è il ritorno delle fabbriche in aree prima colpite dalla delocalizzazione: se produco un oggetto attraverso lavorazioni automatizzate a controllo numerico si riduce molto il vantaggio competitivo di Paesi con manodopera a basso costo, come la Cina e altre aree del sudest asiatico. Inoltre a una scala urbana si inizia a intravedere il ritorno delle industrie nelle nostre città – pensiamo all'esempio dei loft in Brooklyn ritornati a ospitare funzioni produttive altamente caratterizzate da queste tecnologie – contrastando per la prima volta quell'ampio processo di deindustrializzazione che ha colpito le grandi città del mondo occidentale: fabbriche abbandonate che venivano, nel migliore dei casi, recuperate per essere destinate ad altri usi, o, nei casi peggiori come spesso a Torino e Milano, rase al suolo per sostituirle con inutili trilocali camera-soggiorno-tinello-bagno.

Ma infine l'aspetto forse più interessante è forse l'impatto sui processi del design. I sistemi di fabbricazione digitale permettono di liberare la creatività del singolo e di ripensare la catena che lega progettazione, produzione e consumo. In un certo senso ciascuno può avere maggior libertà di creare gli oggetti di cui ha bisogno, e di realizzarli poi in modo automatizzato. In un certo senso sembra un po' una rivisitazione dell'antica utopia situazionista di Constant: «L'homo ludens, liberato dalle necessità lavorative grazie all'automazione, non avrà bisogno di creare opere d'arte perché opera d'arte sarà la sua stessa vita...».

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