Federalismo fiscale: una riforma destinata a cambiare l'Italia

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Al Sud una chance federalista

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Questo articolo è stato pubblicato il 14 luglio 2010 alle ore 09:17.
L'ultima modifica è del 14 luglio 2010 alle ore 09:33.

l consenso è ormai ampio e diffuso. Autorevoli commentatori, illustri saggisti, istituzioni importanti, meridionalisti pensosi, e per ultima la Cei, insomma tutti – nessuno escluso – non esitano a indicare in una «inadeguata classe dirigente» il tallone d'Achille del Sud d'Italia. È questo il "motore primo", se così si può dire, di un Mezzogiorno eternamente fermo ai blocchi di partenza. Come dar loro torto? In questo senso, chi voleva, solo qualche anno fa, «abolire il Mezzogiorno» è arrivato tardi.


Ci avevano già pensato, prima di lui, i ministri del Mezzogiorno che hanno gestito l'intervento straordinario fra la metà degli anni Sessanta e i primi anni Novanta, e dopo di loro, gli architetti e i fautori della Nuova Programmazione, sia che agissero da soli sia che agissero al seguito di quei ministri che stavolta venivano più pudicamente chiamati dello Sviluppo e della Coesione territoriale. Non possiamo negare che la loro sia stata una "missione compiuta" (la quale, ora, aspetta solo il "partito del Sud" per compiersi in modo definitivo e irreparabile). Forse per alcuni si è trattato addirittura di un omicidio preterintenzionale, ma questo, dal punto di vista della vittima, non cambia la sostanza delle cose.

In altre parole, 50 anni di politiche economiche profondamente sbagliate e potenzialmente corruttive (nel senso non del codice penale, ma della cultura civica e politica) che nell'ultimo quindicennio hanno trovato la loro espressione più sofisticata, più compiuta e forse inconsapevolmente, anche più alta, sono stati in grado non solo di non risolvere la "questione meridionale" (e questo va da sé, visto non era il loro vero obiettivo), ma anche di impedire che il Mezzogiorno potesse pensare a se stesso e pensare se stesso alla guida dell'intero paese.

Invertire questa tendenza è tutt'altro che semplice, è certamente questione non di breve periodo ma non è impossibile, ma è dalla logica che informa le attuali politiche per il Mezzogiorno che bisogna partire e non dalla vuota invocazione di una nuova classe dirigente. Per azzerarle, semplicemente. Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi vedrà la luce un nuovo Piano per il Mezzogiorno – l'ennesimo progetto, prodotto (guarda caso) da quelle stesse burocrazie che hanno sfornato i precedenti. E nei prossimi mesi verranno alla luce i primi provvedimenti relativi al cosiddetto federalismo fiscale. Ora, questi provvedimenti dovranno misurarsi in base alla logica complessiva di tutto l'impianto, in base alla sua capacità di annullare (senza accontentarsi di limature) l'intermediazione politica e burocratica che è rimasta l'unica, vera, autentica scelta politica assolutamente bipartisan che ha interessato il Mezzogiorno in modo ininterrotto sin dagli anni Sessanta.

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Sulla carta, soprattutto per quanto riguarda il federalismo fiscale, l'inversione di rotta rispetto alle scelte degli ultimi decenni dovrebbe essere netta. La struttura di incentivi proposta alle classi dirigenti e alla società meridionale dovrebbe essere radicalmente innovata. Il principio di responsabilità affermato in maniera inequivoca. Ma il diavolo si cela, come sappiamo, nei dettagli, e le pieghe della normativa, forse anche troppo condivisa, che ha introdotto in Italia il federalismo fiscale sono talmente vaste e numerose da non consentire soverchie illusioni.

Lo stesso percorso di attuazione della legge delega n. 42/2009 («Delega al governo in materia di federalismo fiscale») lascia non pochi dubbi circa l'esito del processo stesso. A oggi, le informazioni quantitative di cui si dispone sono, numero più numero meno, non dissimili da quelle di cui si disponeva negli anni Novanta, quando si cominciò a dare forma concreta al tema del federalismo. I vincoli di finanza pubblica sono tali da consigliare questa strada: in altre parole, solo avendo ben chiaro il quadro contabile di riferimento si potrebbe procedere al computo dei costi standard e alla definizione dei livelli essenziali di assistenza, e dunque alla disseminazione della relativa informazione.

Ora, pur apprezzando la prudenza di questa impostazione, è difficile condividerla. L'essenza del messaggio federalista richiederebbe, infatti, un percorso pressoché opposto: calcolo dei costi standard (standard e non, in qualche maniera surrettizia, storici) e individuazione dei livelli essenziali (essenziali e non, in qualche maniera furbesca, desiderabili) di assistenza, in modo tale da garantire comunque il rispetto dei vincoli di finanza pubblica e la loro eventuale revisione in presenza di vincoli meno stringenti del previsto (evento improbabile ma non impossibile).

Per dirla diversamente – e contrariamente all'opinione di molti – il federalismo fiscale è oggi una straordinaria opportunità per il Mezzogiorno. Anche rischiosa, certo, ma l'unica forse in grado di rovesciare i valori e le priorità che quarant'anni ininterrotti di sciagurate politiche meridionalistiche hanno imposto al Mezzogiorno. E l'unica, forse, in grado di riattivare meccanismi di selezione della classe dirigente e dunque restituire una voce al Mezzogiorno ormai afono.
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