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Questo articolo è stato pubblicato il 12 gennaio 2011 alle ore 13:10.
L'ultima modifica è del 12 gennaio 2011 alle ore 06:38.
Fino ad ora si può dire che abbiamo scherzato. I decreti adottati (federalismo demaniale, Roma Capitale) hanno riguardato aspetti significativi ma tutto sommato marginali della riforma. Il decreto sui fabbisogni standard, come evidenziato dai primi autorevoli commenti, si limita ad indicare un metodo di calcolo il cui esito è quanto mai incerto circa la capacità di costringere effettivamente gli enti locali a produrre servizi a costi efficienti e, allo stesso tempo, a garantire su tutto il paese un adeguato standard di servizi.
Ora, con il federalismo (fiscale) municipale, su cui il Parlamento si pronuncerà nei prossimi giorni, si decide se ai generici principi contenuti nella legge delega corrispondono poteri tributari, meccanismi perequativi, controlli, processi di riorganizzazione amministrativa tali da rendere concreti e operativi quei principi cui si riconnettono le decantate virtù del federalismo. Per questo si tratta di valutare se gli obiettivi e i vincoli posti dalla legge delega (n.42/2009) risultino davvero rispettati.
L'autonomia fiscale è la leva per responsabilizzare gli amministratori in quanto rafforza il potere di controllo e di sanzione dei cittadini elettori. Il decreto fa però una scelta diversa perché la principale imposta locale (l'Imu) non la pagheranno i cittadini che usufruiscono dei servizi, ma solo i proprietari di seconde case (in massima parte non residenti e non elettori) e le persone giuridiche (che notoriamente non votano). Viene quindi meno uno dei fondamenti del federalismo fiscale. Inoltre, poiché questa imposta è molto sperequata, per un numero assai alto dei comuni saranno determinanti le risorse del fondo perequativo: ciò significherà, per molte amministrazioni, tornare a quella finanza derivata che si voleva fortemente ridimensionata.
Diverso sarebbe se, salve le esenzioni per i redditi medio-bassi, già previste per l'Ici dal governo Prodi, l'imposta comunale riguardasse anche i proprietari delle prime case prevedendo però la deduzione di questa imposta dall'Irpef: non aumenterebbero le tasse per i contribuenti, il saldo per il bilancio pubblico sarebbe identico, ma aumenterebbe la responsabilità fiscale degli amministratori.
La legge 42 stabilisce che la differenziazione delle basi imponibili deve essere perequata attraverso trasferimenti statali che garantiscano a tutti i comuni le entrate necessarie a finanziare i servizi fondamentali a un livello quali-quantitativo (fabbisogno) standard a costi (standard) efficienti. Ebbene, il meccanismo che si ricava dalla lettura combinata dei due decreti (federalismo municipale e fabbisogni standard) è allo stato confuso e non garantisce nulla di tutto questo. Costi e fabbisogni standard rimangono ancora misteriosi e così il modo di determinare la capacità fiscale di ogni regione, provincia e comune. Nei fatti, il punto di riferimento rimarrà ancora per molti anni quello della spesa storica, mentre il provvedimento che dovrebbe introdurre modelli organizzativi in grado di produrre efficienza (aggregazione dei piccoli comuni, eccetera), e cioè la famosa Carta delle autonomie, continua a rimanere al palo al Senato.