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Questo articolo è stato pubblicato il 31 gennaio 2011 alle ore 06:36.
Come in un giro di roulette, la pallina stavolta fa felici i proprietari di seconde case (che conquistano lo sconto fiscale) e delude le imprese (che rischiano di pagare di più sugli immobili strumentali). Tra correzioni e modifiche, l'ultima formulazione della bozza sul federalismo municipale ferma l'Imu al 7,6 per mille anche per gli immobili strumentali, con un rincaro medio del 18,75% rispetto all'aliquota media del l'Ici attualmente in vigore.
Per capire da dove arriva la "sorpresa" per gli imprenditori bisogna ripercorrere le tappe convulse che hanno portato al testo del decreto presentato la scorsa settimana alla bicamerale. Il primo testo, approvato in via preliminare ad agosto, lasciava in sospeso la misura di riferimento dell'Imu, promettendo di scriverla in un secondo momento. Rinvio dopo rinvio, i sindaci a un certo punto si sono stufati: «O mettete nero su bianco l'aliquota, o bocciamo il decreto». La reticenza del governo è presto spiegata: per pareggiare i conti, serviva un valore alto, intorno al 10,6 per mille, troppo superiore all'Ici attuale per passare inosservata. Alla fine, l'uovo di Colombo: per abbassare (apparentemente) il conto occorreva ampliare la platea dei paganti in formula piena. Detto fatto: addio al dimezzamento della richiesta per le imprese, e l'aliquota di riferimento scende al 7,6 per mille.
Gli esempi nel grafico a destra illustrano i risultati di quest'altalena fiscale, in otto situazioni tipo: quattro relative a immobili strumentali (in alto) e quattro relative ad abitazioni di proprietà di persone fisiche (in basso).
Partiamo da ciò che accade ai fabbricati strumentali delle imprese e a quelli posseduti dai soggetti passivi Ires (l'imposta sui redditi delle società). In questo caso è prevista l'Imu ad aliquota piena, più cara dell'Ici mediamente praticata, che oggi si attesta al 6,4 per mille, cioè il 18,75% sotto il livello della futura Imu. I numeri nel grafico traducono in cifre questo rincaro, che però nella realtà può anche essere più aspro: a Milano, per esempio, l'Ici ordinaria è al 5 per mille, per cui il debutto del federalismo municipale potrebbe costare alle imprese un aumento del 52 per cento.
Nell'ultima versione, la bozza lascia ai comuni la possibilità di alleggerire il conto fino a dimezzarlo, anche articolando gli sconti in base alle tipologie di imprese, un po' come oggi le regioni fanno con l'Irap. La generosità dei sindaci, però, non sarà facile da ottenere, visti gli spazi angusti in cui è costretta a muoversi la fiscalità degli enti locali.