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Vi spiego perché adesso il 150° dell'Unità diventa un passaggio politico delicato

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Questo articolo è stato pubblicato il 08 gennaio 2011 alle ore 08:50.

Fino a ieri il 150esimo anniversario dell'unità d'Italia poteva essere visto in due modi: come un'occasione da passare sotto silenzio e contro cui avviare addirittura un blando boicottaggio (linea leghista); oppure come un evento di scuola, da rievocare con la dovuta dose di retorica per archiviarlo appena possibile (posizione più o meno dichiarata di un ampio arco politico).

150 candeline per ricordare che lo stato siamo noi (di Michele Ainis)

Giorgio Napolitano ha scelto una terza via e ora il 150esimo rischia di porre qualche scomodo interrogativo ai vari attori e comprimari del palcoscenico politico. La terza via del presidente riguarda il rispetto dovuto al Tricolore in quanto vessillo nazionale. Proprio chi crede nel federalismo e quindi nel rinnovamento istituzionale dovrebbe aderire con convinzione ai valori dell'Unità, simboleggiati dalla bandiera. Il federalismo, in sostanza, ha bisogno di una solida cornice unitaria.

Il sottinteso è fin troppo chiaro. Chi non rispetta il Tricolore manifesta il suo disprezzo verso l'Unità. Ma chi non crede all'Unità non vuole nemmeno un autentico federalismo e il rinnovamento istituzionale: vuole una forma di secessione, più o meno mascherata. Napolitano questo non lo ha detto, ma era la preoccupazione implicita nel suo discorso di Reggio Emilia. La città dove nel 1797 il Tricolore sventolò per la prima volta come bandiera della Repubblica Cispadana.

Repubblica Cispadana... L'area geografica e quel nome così evocativo dovrebbero suggerire qualcosa ai leghisti. Purtroppo essi tendono invece a crogiolarsi in un revisionismo anti-risorgimentale alquanto sconfortante. E anche poco utile, visto che ormai il federalismo fiscale, salvo clamorosi colpi di scena, è alle porte. Quindi anche l'affermazione di Bossi («festeggeremo l'anniversario dopo che avremo superato il centralismo») sembra un gioco di parole. In realtà la Lega è a un passo dal vincere la sua battaglia (semmai si tratterà di capire in seguito se il federalismo funzionerà, se servirà a razionalizzare le spese, se cambierà in meglio la vita dei citadini).

Che senso ha quindi ostentare fastidio verso la bandiera nazionale, come accade spesso negli ambienti del Carroccio? La risposta è solo una: lo spirito anti-unitario serve alla Lega, ai vari livelli, per mantenere la compattezza dell'elettorato. Come è noto lo stesso Bossi, in anni ormai lontani, ma non remoti, usava insultare il Tricolore. Ma proprio questa esigenza dimostra l'ambiguità del federalismo nella concezione leghista: uno strumento per rafforzare l'unità del paese o per prepararne la divisione?

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L'uscita di Napolitano è destinata a fare chiarezza sul nodo politico, nell'interesse stesso della Lega. Il partito rappresenta ormai una porzione talmente ampia dell'elettorato settentrionale che può solo trarre maggiore forza da una prova di maturità. Tanto più che il capo dello Stato non ha riproposto vecchi stereotipi. Al contrario, a Forlì si è spinto a parlare di «vecchie tare che ci siamo portati dietro». E della necessità di «superare il vizio d'origine del centralismo statale d'impronta piemontese», attuando il titolo V della Costituzione.
Sarà per questo che la Lega ha tenuto bassi i toni polemici. Anzi, il ministro Calderoli ha persino ringraziato il presidente. L'esponente leghista cammina un po' sulle uova, ma è evidente che il Carroccio non vuole incidenti di alcun tipo prima del «sì» definitivo al federalismo. Ma il punto politico ora è sul tavolo.

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