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Questo articolo è stato pubblicato il 25 febbraio 2014 alle ore 07:40.
L'ultima modifica è del 25 febbraio 2014 alle ore 15:43.

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Federico Buffa commenta partite di basket americano da quasi vent'anni e insieme al suo socio Flavio Tranquillo ha creato uno dei linguaggi più sperimentali della storia dell'informazione italiana. Trasformando l'American English in italiano corrente, Tranquillo e Buffa hanno insegnato agli appassionati italiani una lingua esoterica e la storia di un continente. Hanno detto «Dodici Rodman ad allacciata di scarpe» al posto di «Dodici rimbalzi a partita». Per Sky, Buffa da qualche anno si occupa anche di calcio. Parliamo di lingua, mentori, entrature, politica in un bar di Milano, nel tardo pomeriggio.

Come cominciano i tuoi rapporti con l'America?
C'è mio padre che vorrebbe farmi fare al liceo un anno negli Stati Uniti – che all'epoca era una cosa abbastanza traumatica – perché conosce una persona il cui figlio lo fa. Io vado in una sorta di ritiro preliminare sul lago di Como di sabato mattina e vengo tagliato al primo turno: «Inadatto al mondo americano», al che mi sono abbastanza rassegnato. Mi immaginavo giocatore di calcio della squadra e immaginavo che sarei stato piuttosto forte rispetto ai miei coetanei degli anni Settanta americani. Mi avranno ritenuto chiuso e ombroso e quindi inadatto ad andare negli Stati Uniti per un anno. Non mi sono mai perdonato di non esserci andato.
Giocavo a pallone e mi proiettavo nell'idea di «Cazzo, vado là e faccio la star!». Stava per andarci Chinaglia e credo ci fosse già andato Pelé o Bobby Moore. Io ero quello che oggi sarebbe un trequartista, mi piaceva tanto, ero sicuro che da grande avrei fatto quello lì. È la prima volta che lo racconto. A questo punto mio padre mi imputò: «Ecco, hai visto? Sei il solito, guarda come ti sei comportato!». Ho detto «Vabbè, sono un quindicenne, papà, son problemi dei quindicenni», e lui mi disse «Non mi arrendo», e per la maturità mi regalò una summer session a Ucla (1). Sociologia.
La Summer School durava quarantacinque giorni... Ma io sono andato da un professore e gli ho detto: «Prof, non mi faccia neanche fare l'esame perché sono stato picchiato dal mio compagno di stanza taiwanese perché avevamo degli orari diversi e lui si incazzava». Era uno psicopatico. Dopo il viaggio ho capito che quel posto lì sarebbe stato la mia destinazione perenne. Ultimamente mi sono messo a contare e ho superato i cento visti.
Lì a Ucla la prima volta ho visto giocare Chamberlain (2): il mio imprinting è Chamberlain... Aveva 45 anni ed era retired, ma d'estate vivendo a Bel Air veniva a giocare le partite con gli ex Ucla e quelli che risiedevano in zona, in campi coperti, 5 contro 5... Gli anni dopo sono sempre tornato a Ucla a vedere le partite. Andavo tutti i pomeriggi e il secondo anno c'era Magic Johnson, che era già il padrone... Come farà col Dream Team (3), fischia lui, ci dà i falli... E ha fischiato: ha deciso che Chamberlain aveva fatto passi... Chamberlain allora disse «No more layups in this gym!» [più o meno, «Non ti faccio più avvicinare al canestro», ndr]. Gli ha stoppato ogni tiro da lì in poi. Ma mandandogli la palla a San Diego eh... Aveva 45 anni...

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