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Questo articolo è stato pubblicato il 15 marzo 2011 alle ore 14:46.

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Chissà se a Carlos Ghosn e al suo numero due Patrick Pélata basteranno le scuse televisive alla giapponese per salvare il posto. Stando alle reazioni a caldo del Governo (che un ruolo deve pur giocarlo, visto che lo Stato è ancora il primo azionista di Renault con il 15%) sembra proprio di no. Il portavoce, nonché ministro del Bilancio, François Baroin, ha dichiarato che «l'incredibile dilettantismo dimostrato dal vertice della casa automobilistica in questa vicenda non può non avere un seguito». E il ministro dell'Industria Eric Besson ha aggiunto: «È una buona cosa che Ghosn si sia scusato, ma non è la fine di questa storia».

L'opposizione ovviamente ci ha messo del suo, con una presa di posizione del segretario socialista Martine Aubry: «Quando un dirigente commette un errore se ne va. Credo quindi che Ghosn debba andare un po' più in là nel trarre le conseguenze di quanto è accaduto». I sindacati sono all'attacco. E la stampa in generale sembra condividere queste osservazioni, mostrandosi stupita che non sia caduta alcuna testa. Come tutti si aspettavano. Tanto più che la comparsata televisiva del supermanager, tesa ad accreditare la tesi di una Renault vittima della truffa orchestrata ai suoi danni, non è stata proprio convincente. E neppure la decisione di Ghosn di rinunciare ai bonus 2010: 1,6 milioni a fronte di una remunerazione complessiva (tra Renault e Nissan) di oltre 9 milioni, che ne fanno il dirigente più pagato delle grandi società francesi. Poca cosa rispetto ai quattrini che Renault dovrà versare ai tre dirigenti ingiustamente licenziati all'inizio di gennaio. Tanto più che di errori, e di atteggiamenti arroganti e supponenti da parte del vertice del gruppo, questa storia è talmente zeppa da aver alimentato così tanti dubbi, antipatie e risentimenti che un po' di sangue deve per forza scorrere.

Tutto comincia ad agosto dell'anno scorso, quando la commissione di deontologia di Renault riceve una lettera anonima in cui uno dei 28 top manager dell'azienda, Michel Balthazard, viene genericamente accusato di aver rivelato segreti industriali in cambio di mazzette versate su un conto in Lichtenstein. Lo stesso autore della lettera ammette di non avere alcuna prova e anche una lettura superficiale spingerebbe chiunque ad appallottolarla e gettarla in un cestino. Invece viene messa nelle mani degli uomini della sicurezza interna – tutti ex poliziotti o uomini dei servizi – perché venga condotta un'inchiesta interna. A fine dicembre i risultati dell'indagine sono inquietanti: oltre a Balthazard altri due dirigenti – titolari di conti in Svizzera – fanno parte di una vera e propria filiera internazionale, apparentemente gestita da concorrenti cinesi, di spionaggio industriale ai danni di Renault. In particolare per quanto riguarda il progetto di auto elettrica.

Il 3 gennaio i tre, increduli, vengono cacciati in malo modo dai loro uffici. La vicenda diventa rapidamente pubblica. Besson, preso in contropiede visto che nessuno di Renault aveva pensato bene di avvertire il Governo, parla di "guerra economica". I servizi, più cauti, esprimono le loro perplessità. E finalmente avviano la loro, di inchiesta. I giornalisti investigativi del settimanale Canard Enchainé iniziano a distillare informazioni riservate da cui risulta che probabilmente si tratta di una bolla di sapone. Eppure Renault insiste. E Ghosn, l'uomo che guida il terzo gruppo automobilistico mondiale, si espone in prima persona. Va al principale tg della sera, lo stesso dov'è tornato a scusarsi, a dire che "le prove sono numerose" e che Renault è "sicura" di quello che sta facendo. Rilascia un'intervista in cui afferma: «Non siamo dei dilettanti». Alla conferenza stampa di presentazione dei risultati finanziari, il 10 febbraio, risponde irritato a una domanda sul dossier spionaggio: «Ci abbiamo lavorato in tanti, abbiate fiducia». E invece non era vero nulla. I tre, come hanno detto e ridetto, non hanno mai avuto un conto all'estero. E non c'era neppure, come a un certo punto si era pensato (o sperato), un sofisticato complotto interno finalizzato a screditare alcuni dirigenti. Semplicemente il numero due della sicurezza di Renault, tale Dominique Gevrey, si era inventato tutto, per scucire un po' di soldi. Solo che questa volta la faccenda gli è sfuggita di mano.

Questa volta, perché sembra ormai accertato che alla fine del 2009 si è verificato un caso analogo. L'allora numero due del marketing era stato messo alla porta, accusato di avere un conto in Svizzera su cui venivano versate le mazzette di alcuni fornitori. Lui, pur innocente, aveva preso una megabuonuscita e se n'era andato, sperando di cogliere un'altra occasione professionale. Oggi, disoccupato, si fa avanti per rivendicare la sua parte della torta. E potrebbe non essere l'unico. Il problema è che non si tratta tanto di soldi bensì di immagine. Chi mai crederà più a Ghosn e ai suoi stretti collaboratori, che per leggerezza hanno marchiato a vita tre persone e portato la Francia sull'orlo di una crisi diplomatica con Pechino, quando chiederanno fiducia? Chi, incontrandolo, non penserà che il grande Ghosn è stato abbindolato da un ex poliziotto in una sceneggiatura di serie Z? Di solito, per riparare a questi, enormi danni non bastano i quattrini, servono le teste.

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