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Questo articolo è stato pubblicato il 16 aprile 2011 alle ore 11:58.

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Gli imprenditori che fanno un affare quando si ricomprano le aziende di famigliaGli imprenditori che fanno un affare quando si ricomprano le aziende di famiglia

Le ultime cronache raccontano il ritorno della B&B Italia, famoso marchio italiano di arredamento, nelle mani della famiglia Busnelli, e lo sforzo di Maurizio Borletti per tenere la gestione della Rinascente, che suo nonno Senatore Borletti ha reso un secolo fa la catena di grandi magazzini più elegante d'Italia. Quando si narrano le operazioni di riconquista del marchio di famiglia, il pensiero corre al caso più noto, quello di Pietro Barilla e dell'azienda che si trovò a vendere nel 1970 alla multinazionale Grace, per poi riprenderla nel 1979 dopo un periodo di grande sofferenza («nel '78 non avevo ancora la cifra in cash e davanti agli uomini della Grace rimasi così male perché non potevo chiudere l'affare che piansi di fronte al numero due, mi emozionai»).

Ma sono diverse ogni anno le piccole e medie aziende storiche del made in Italy che ritornano sotto il controllo dei fondatori. Quelli che si ricomprano l'azienda lo fanno per spirito d'impresa, attaccamento al territorio, senso della tradizione. Ricomprano con i figli, per i figli, ma pensando al papà o al nonno.
C'è chi l'ha venduta e la riacciuffa, chi invece non se n'è mai andato davvero ma vuole riprendere la gestione. A ragione. Perché i leader familiari, come sottolinea il rapporto 2010 dell'Osservatorio Aidaf-Bocconi, fanno bene alle aziende, in particolare quelle di medie dimensioni.
«Non parlerei di fenomeno rilevante – spiega Gioacchino Attanzio, direttore generale di Aidaf, l'Associazione italiana delle aziende familiari – perché non c'è un boom di operazioni del genere, alla Barilla. Anche se è certo che ogni anno ci sono una serie di imprenditori che ricomprano l'azienda di famiglia. Le aziende sono «pezz'e'core», come si dice. La gente le lascia andare, poi le riprende, magari guadagnandoci, perché sono andate in mano a fondi che non hanno avuto la giusta dedizione». E poi, c'è il ritorno di immagine. «L'azienda crea un'identità consolidata nel territorio: quando la si vende, si diventa uomini ricchi e basta. Ma poi ritorna la passione dell'imprenditore».

Aprea e il gozzo sorrentino
Il territorio e la clientela. «Confesso che quando siamo tornati in possesso dell'azienda, in zona hanno cominciato a guardarci di nuovo con simpatia. L'azienda non si è mai spostata, ma forse far parte di un gruppo più grande dava questa percezione di lontananza, che in qualche modo aveva peggiorato il nostro rapporto diretto con la clientela». Cataldo Aprea, 56 anni, è l'erede di una dinastia di maestri d'ascia (oggi imprenditori nautici) che risale al 1849 e al bisnonno Giovanni. L'Apreamare, marchio del gozzo sorrentino nato nel 1988, è entrata a far parte del gruppo Ferretti nel 2001 e solo nove anni dopo ha lasciato Forlì per tornare a Torre Annunziata. «Nel 2008 consideravo già chiusa l'esperienza in Ferretti, troppo legato alla finanza e poco al prodotto. Poi con l'arrivo della crisi, gli investimenti sono stati azzerati e loro hanno deciso di vendere Apreamare: non faceva parte del core business». E' stato allora che si è presentato il bivio. «Con i figli del mio socio storico (Pollio), abbiamo fatto un po' di numeri e visto che poteva funzionare». Il 24 marzo 2010 arriva l'accordo, e il ritorno a casa.
Oggi ad accompagnare Cataldo nella nuova gestione ci sono il figlio Giovanni (quinta generazione), e Rita e Antonino Pollio, figli di Salvatore, socio storico del cantiere. «Abbiamo 180 dipendenti e il nostro obiettivo è di far lavorare l'azienda, spiega Cataldo, anche se non è certo un bel momento per il settore nautico. «Sono sempre stato convinto che per crescere meglio e in fretta ci sia bisogno di sinergie tra più aziende. Quando siamo entrati in Ferretti avevamo un fatturato di 17 milioni, senza un euro di debito. Volevamo crescere, ma nel tempo il vantaggio è venuto meno. L'ultimo fatturato è di 11,5 milioni, speriamo di arrivare quest'anno a 25-26 milioni». Rifarebbe tutto, anche cedere di nuovo il controllo dell'azienda? «Assolutamente sì, ma mi dispiace che sia finita così con Norberto Ferretti. Dopo quest'esperienza, lo rifarei ma a determinate condizioni, con la finanza al servizio dell'impresa. Noi vendiamo sogni e giocattoli, il cliente vuol essere accolto, seguito. Quando eravamo nel gruppo, la parola customizzazione sembrava una bestemmia, mentre noi dobbiamo mantenere un'offerta ricercata e su misura, per sopravvivere. Come dice una mia amica "il cantiere è un servizio come la boutique"». Meglio se di famiglia.

Busnelli e l'arredo contemporaneo
Delusi dalla finanza forse anche Giorgio Busnelli e la sua B&B Italia. Fondata da Piero Ambrogio Busnelli nel 1966 a Novedrate (Como), come azienda di imbottiti, la B&B ha fatto la storia del design italiano. Nel 2003 il controllo è passato nelle mani del fondo Opera, con l'obiettivo di arrivare in breve alla quotazione in Borsa. «La partnership – ha spiegato Busnelli - è nata dall'idea di approcciare la Borsa, ma l'incertezza dei mercati in questi ultimi anni ci ha portato ad accantonare questo progetto. Una delle ragioni che ci ha fatto riflettere sul futuro dell'azienda e ci ha spinto a riprenderne il pieno controllo per garantire un percorso di continuità e di crescita».
La crisi economica ha pesato non poco sulle ambizioni della B&B, il cui fatturato globale nel 2009 si è ridotto del 18% rispetto ai 210 milioni del 2008. A inizio marzo, la famiglia Busnelli ha perciò rilevato la quota del 51,4% dell'azienda, che oggi ha 160 milioni di fatturato, di cui l'80% sull'export, e 500 dipendenti. Rientra dunque tra quelle mille aziende, sulle quasi 3mila che hanno un giro d'affari oltre i 100 milioni, a gestione familiare. «Consolideremo la collaborazione – ha dichiarato Giorgio Busnelli - con tutti i nostri partner e guarderemo a quei mercati che, oltre a crescere economicamente, stanno maturando la giusta sensibilità per apprezzare il design dei nostri prodotti».

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