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Questo articolo è stato pubblicato il 30 luglio 2011 alle ore 08:57.

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Lavora chi investe nel futuroLavora chi investe nel futuro

Le tre "i": inglese, impresa, informatica. Così le definì qualche anno fa Silvio Berlusconi, esortando i giovani a migliorare le prospettive di lavoro con lo studio di queste tre materie (il presidente del Consiglio aggiunse comunque che lui, personalmente, non era molto forte in due delle tre). Da allora chi abbia voluto scovare altre "i" ha avuto l'imbarazzo della scelta: investimento? innovazione? Ma dietro questi acronimi si cela un vero e grosso problema. Quali sono oggi le prospettive di lavoro di chi lascia la scuola o l'università? Come ha cambiato, la crisi, queste prospettive?

A guardare le grandi cifre l'Italia non sembra essere messa troppo male sul fronte dell'occupazione. Il tasso di disoccupazione, che in America è sopra il 9%, in Italia è all'8,1%; confrontandoci, più vicino a noi, con gli altri maggiori Paesi dell'area euro, siamo secondi solo alla Germania (6%), e prima della Francia (9,5%) e della Spagna (20,9 per cento!).

Il confronto è meno consolatorio per quanto riguarda la disoccupazione giovanile, dove ci ritroviamo non al secondo ma al quarto posto (anche qui la Spagna è all'ultimo). Ma comunque il problema principale del mercato del lavoro italiano non sta tanto nella disoccupazione quanto nell'occupazione.

Se guardiamo alle statistiche vediamo che, per esempio, in Thailandia il tasso di disoccupazione è un modestissimo 0,7%. Ma, come sa chi conosca quel Paese, l'assenza di una rete di sicurezza sociale implica che chi voglia sopravvivere deve lavorare, anche se il "lavoro" porta 100 euro al mese: la bassa disoccupazione si accompagna così a un'alta sotto-occupazione. Bisogna quindi guardare oltre alle statistiche sui disoccupati e guardare a quelle sugli occupati, sia nelle quantità sia nella qualità.

In Italia tutti i confronti sull'occupazione danno risultati sconfortanti: siamo in coda alla classifica, sia sul tasso di occupazione totale (percentuale di occupati in rapporto alla popolazione in età di lavoro) che, ancor più per quello femminile. Su questa minorità non pesa tanto la percentuale di impieghi a tempo parziale (per quanto riguarda questa statistica siamo più o meno in linea con gli altri Paesi) quanto la qualità di questi posti di lavoro.

Tanti occupati sono precari: bassi redditi, insicurezza, scarse tutele e, in prospettiva, basse pensioni. In tempi di crisi questa minorità diventa ancor più pesante. Purtroppo, non ci sono soluzioni semplici, perché un miglioramento passa solo per il lento risanamento di inferiorità strutturali: nel sistema educativo, nella mentalità, nella piaga della criminalità organizzata, nel sistema di valori che informa la nazione (e su questo punto la classe dirigente dà un cattivo esempio).

Nel frattempo, l'unico consiglio che si può dare alle famiglie è quello di insistere sulle varie "i": mandate i figli all'estero, fategli maneggiare i computer, non abbiate paura di un'avventura (i)mprenditoriale e (i)nvestite sull'(i)struzione.

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