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Questo articolo è stato pubblicato il 28 dicembre 2011 alle ore 13:27.

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Aumenta la richiesta di credito da parte delle pmi nel triennio 2007-2010, ma diminuisce la quantità di denaro prestata. Secondo il rapporto sull'accesso dal credito delle piccole e medie imprese dell'Istat, la quota di aziende che hanno cercato finanziamenti esterni è infatti passata dal 36,5% al 52,2 per cento. Un aumento a fronte del quale però scende la percentuale dei successi: le imprese che hanno domandato credito e che dichiarano di averne beneficiato in almeno un occasione passano dall'87,5% nel 2007 al 79,8% nel 2010.

A chi si chiede il credito
Il credito risulta il canale di finanziamento privilegiato (27,1% delle imprese nel 2007 e 33,9% nel 2010). Al capitale di rischio ricorre meno dell'1% delle aziende, mentre in tre anni è raddoppiata (passando dal 14,7% al 28,3%) la percentuale di aziende che ha ricercato finanziamenti con strumenti diversi, quali credito commerciale, scoperti bancari, anticipazioni della clientela, sussidi pubblici, leasing e prestiti agevolati.
Le banche sono il canale principale (oltre il 90%) per le imprese che cercano finanziamenti tramite il credito. Tuttavia, tra il 2007 e il 2010 è cresciuta la quota di imprese che si sono rivolte anche ad altri soggetti (dal 17,1% al 35,4%). La quota di imprese che sono riuscite a ottenere crediti dalle banche è stata pari al 78,4% del 2010, in netta riduzione rispetto a tre anni prima (86,6%). Il problema più frequente nella ricerca di finanziamenti riguarda la quantità di risorse accordata dalle banche, che per circa la metà delle imprese è stata inferiore alla cifra richiesta.

Il costo per le imprese dei mancati pagamenti, un'anomalia italiana
Le aziende italiane hanno dovuto far fronte a un altro forte handicap cioè al mancato pagamento dei crediti. Secondo la stima della Cgia di Mestre questo costa alle imprese 10 miliardi di euro l'anno.
Si tratta di un importo di cui le imprese, soprattutto quelle piccole, sottolinea la Cgia, «devono farsi carico per far fronte alla mancanza di liquidità provocata dal ritardo nell'incasso delle fatture. Questa situazione, diffusissima in Italia, costringe molte aziende a ricorrere a prestiti bancari per finanziare l' attività. A questo extraonere sono da includere anche i costi delle risorse umane impegnate nel sollecito dei pagamenti, o quelli da sostenere quando si è costretti a rivolgersi ad un legale o ad una società di recupero crediti».
Complessivamente, nei confronti della Pubblica amministrazione le aziende private devono ancora riscuotere una somma che sfiora i 70 miliardi di euro. Una situazione che non ha eguali in Europa.
Ma le cose non vanno meglio nemmeno quando si fa riferimento a transazioni commerciali tra imprese private, anche grandi aziende sempre più spesso pagano in ritardo.

Per quelle aziende che lavorano con la Pubblica amministrazione i pagamenti vengono onorati dopo 180 giorni (+52 giorni rispetto al 2009) con un ritardo medio, nei confronti dei termini contrattuali, di 90 giorni. Niente a che vedere con le situazioni che si verificano nei Paesi nostri concorrenti: in Francia le fatture vengono «saldate» a 64 giorni (6 giorni in meno rispetto al 2009), nel Regno Unito a 47 giorni (-2) e in Germania a 35 giorni (-5 rispetto al 2009).

Monti intervenga
«Vista la situazione presente in Italia - afferma il segretario Cgia Giuseppe Bortolussi - è necessario che tra le misure che caratterizzeranno la cosiddetta fase 2, il Governo Monti recepisca quanto prima la Direttiva europea che stabilisce i tempi massimi entro i quali devono essere fatti i pagamenti tra privati, e tra i privati e la Pubblica amministrazione. Nel primo caso le fatture dovranno essere pagate a 60 giorni, nel secondo caso a 30 giorni. Visti i costi di cui le piccole imprese devono farsi carico per fronteggiare questa anomalia tutta italiana, è necessario intervenire subito».

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