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Questo articolo è stato pubblicato il 23 gennaio 2013 alle ore 14:16.

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Il Pil dell'Italia marcia in senso contrario, come un gambero. Dal 2007 ha perso sette punti. E nel 2013 perderà un altro punto percentuale (secondo Bankitalia). Il tasso di povertà è aumentato e sei famiglie su 10 fanno fatica ad arrivare a fine mese. Leggendo le statistiche elaborate dall'Istat non si apprendono, purtroppo, solo buone notizie (12,5 milioni di italiani praticano sport con continuità, nel 2011 ci sono stati 546.607 nuovi nati, ecc.) o curiosità (i nomi preferiti sono Sofia e Francesco).

I dati macroeconomici sono invece poco confortanti: il tasso di disoccupazione è salito all'11,1% (un anno fa, quando era già in rialzo, era al 9,7%). Da luglio 2012 il numero degli occupati è sceso dal 23,1% al 22,9%. Le retribuzioni sono cresciute meno del tasso di inflazione, la produzione industriale ha perso 7,6 punti, il settore manifatturiero è calato del 25% dal 2007.

Insomma, il sistema-Italia non è in uno dei suoi momenti più felici. Una condizione che si riflette sul benessere e sulla qualità della vita dei cittadini.

Come uscire da questa empasse? Una bella domanda a cui ci si augura che il nuovo governo che andrà a comporsi dopo le elezioni di fine febbraio potrà rispondere in modo convincente. Il primo obiettivo è, ovviamente, cercare di invertire la china.

Tutto ruota intorno al Pil
Tutti, in Italia, in Europa e nel mondo, sintetizzano l'andamento economico di un Paese con il Pil (Prodotto interno lordo, conosciuto nel mondo anglosassone con l'acronimo Gdp, ovvero Gross domestic product). Rappresenta la domanda aggregata di un Paese. Misura il valore dei beni e dei servizi prodotti in un Paese sia da operatori comunitari che extra-comunitari in un anno destinati al consumo finale delle famiglie (consumi), agli investimenti privati (investimenti fissi delle imprese), alla spesa pubblica e le esportazioni nette (bilancia commerciale, positiva se le esportazioni superano le importazioni). Quindi in pratica il Pil cresce in relazione a consumi delle famiglie, spesa pubblica finalizzata ai consumi, investimenti delle imprese e saldo export-import.

Posto che il Pil per la sua natura presenta alcuni elementi paradossali e alcune distorsioni (ad esempio, se un edificio viene distrutto da una bomba il Pil cresce due volte, perché l'industria delle armi avrà spazio per produrre un'altra bomba e quella edilizia potrà costruire un nuovo edificio mentre per la collettività non ci sono certo vantaggi dal bombardamento di un edificio) e posto che lo stesso direttore dell'Istat, Enrico Giovannini, ha detto che il «Pil non basta» e che è allo studio un nuovo indice sul benessere, cerchiamo di capire quanto incidono questi quattro elementi nella dinamica della crescita della domanda aggregata in Italia.

La composizione del Pil in Italia
Dal grafico correlato emerge che - secondo le elaborazioni della Banca mondiale - circa il 60% del Pil in Italia nel 2011 è stato generato dai consumi delle famiglie, il 20% circa dalla spesa pubblica per consumi finali (comprende tutte le spese correnti del governo per l'acquisto di beni e servizi, inclusi i redditi da lavoro dipendente e la maggior parte delle spese per la difesa nazionale e la sicurezza), un altro 19% dagli investimenti fissi delle imprese. Poi c'è il saldo export-import che quando è negativo va a decurtare il Pil e quando positivo ha un effetto potenziante.

I fattori depotenzianti
La scomposizione del Pil serve anche a chiarire l'idea che l'algoritmo per far ripartire l'Italia è molto complesso. Perché i fattori chiamati ad alimentare la crescita sono minati e controbilanciati da altri fattori depotenzianti. A partire da un'eccessiva tassazione che erode la capacità delle famiglie di far crescere i consumi e quindi erode l'acceleratore più significativo del Pil in Italia. Non è un caso che i consumi in Italia - come ricorda Confcommercio - sono tornati ai livelli del 1998.

L'austerity in atto e il pareggio di bilancio costituzionalizzato impongono, allo stesso tempo, costanti tagli alla spesa pubblica (ci si augura che questi riguardino in futuro sempre più la componente improduttiva, in modo tale da poter drenare le risorse tagliate verso altri acceleratori di Pil, ad esempio verso gli investimenti fissi delle imprese che potrebbero tradursi in nuovi posti di lavoro e nuovi consumi).

In questo circolo vizioso anche le imprese soffrono negli investimenti. Come può aumentare, infatti, la domanda di investimenti delle imprese italiane se il total tax rate è del 68,3% contro il 46,8% della Germania?

Mentre anche le esportazioni, se l'euro continua a salire (nell'ultimo anno ha guadagnato il 7% sul dollaro che ha beneficiato delle manovre di quantitative easing della Federal Reserva precluse per statuto alla Banca centrare europea) rischiano di far fatica.

Secondo il ministro dell'Economia Vincenzo Grilli, dalla seconda metà del 2013 potrebbe arrivare un accenno di ripresa, con il «maggior contributo che arriverà da esportazioni e investimenti».

I numeri indicano però che per poter aspirare a una ripartenza davvero convincente non si può prescindere anche dai consumi. E questa, ad oggi per l'Italia e per qualsiasi Paese dell'area euro, è probabilmente l'equazione più difficile da risolvere nell'algoritmo della crescita.

twitter.com/vitolops

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