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Questo articolo è stato pubblicato il 23 gennaio 2013 alle ore 07:44.

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Espellere i numeri dalle campagne elettorali favorisce la demagogia e non aiuta a capire. Gli impegni diventano poco credibili, aumenta la diffidenza degli elettori, i programmi finiscono per essere vacche nere nella notte nera.

È anche vero che pretendere dai leader politici i decimali di ogni singolo intervento è un'altra forma di demagogia, quella di chi ignora, o finge di ignorare, le quotidiane e infinite variabili cui è esposta la pratica di governo. Ma ci sono cifre che non si possono omettere, perché portano con sé verità che vanno dette a chi è chiamato a votare.

I primi numeri che non si possono ignorare, allora, sono quelli della pressione fiscale. Qui e là li abbiamo sentiti citare, ma ognuno lo fa un po' a modo suo. Allora: il total tax rate che grava sulle imprese è alla cifra record del 68,3% contro il 46,8 della Germania, il 35,5 del Regno Unito, il 65 della Francia, il 38,7 della Spagna; il cuneo fiscale - includendo le tasse locali - raggiunge il 53,5% del costo del lavoro contro una media Ocse del 35,4% e la pressione complessiva è aumentata di tre punti in un anno.

Cifre che ci dicono una prima verità: che con questa pressione fiscale parlare di rilancio della crescita e di competitività del sistema Italia è una presa in giro. Non ci si può stupire poi se la dinamica del Pil resta tra le più deboli d'Europa, se la quota italiana di produzione mondiale arretra dal 4,5% al 3,3, se il nostro manifatturiero perde il 22% di produzione rispetto ai picchi pre-crisi. Se vogliamo davvero che l'economia reale di questo Paese torni a crescere, il peso del fisco - in particolare sulle imprese e sul lavoro - deve calare.

Il secondo gruppo di cifre riguarda gli impegni di finanza pubblica che il futuro governo dovrà da subito onorare. Il bollettino diffuso nei giorni scorsi dalla Banca d'Italia si è tenuto alla larga dalla questione della manovra correttiva, ma la previsione di una crescita negativa di un punto, accompagnata da un'analisi impietosa sull'andamento dei consumi e della produzione, avvalora l'ipotesi della necessità di una correzione a giugno di circa 7 miliardi. Cifra importante, anche perché da recuperare in soli sei mesi. C'è poi il capitolo difficile da stimare della Cig in deroga. Il tiraggio della cassa integrazione sarà molto sostenuto quest'anno: potrebbero essere necessari stanziamenti aggiuntivi, in miliardi, a doppia cifra.

Andrebbe poi sempre ricordato l'impegno a ridurre di 3 punti all'anno il debito. Sono 45 miliardi l'anno. Certo, se sapremo mantenere il pareggio di bilancio e l'avanzo primario attuali e avere una crescita nominale di almeno il 2,5%, l'obiettivo sarà centrato, ma dovremo farlo.

Da una parte, dunque, le cifre non dette rivelano la necessità, per crescere, di una riduzione percepibile della pressione fiscale, dall'altra indicano le risorse da trovare subito per impegni in gran parte già prevedibili.

Sono due blocchi di numeri che sembrano non compatibili. Ma che possono diventarlo a condizione che si dica ai cittadini la verità su un altro insieme di cifre, quello della spesa pubblica. In Italia la spesa delle pubbliche amministrazioni è aumentata da circa 600 miliardi a circa 800 nell'ultimo decennio, ma soprattutto quella corrente (al netto degli interessi) è passata dal 41,4% del Pil nel 2001 al 45%. Quasi quattro punti di Pil in più. Al contrario i tedeschi, nello stesso periodo, l'hanno ridotta dal 44,5% al 42,8 per cento.

Dunque tagliare la spesa si può. È un'operazione complessa, che richiede un processo profondo di riforma dell'organizzazione dello Stato – a cominciare dalla revisione del Titolo V – e uno sforzo certosino nel colpire solo le spese improduttive. Ma si può. Si può e si deve, perché solo così è possibile conciliare la riduzione della pressione fiscale, necessaria per tornare a crescere, con le poste di finanza pubblica già impegnate. Ecco l'ultima verità che le cifre aiutano a dire agli elettori.

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