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Questo articolo è stato pubblicato il 15 marzo 2011 alle ore 08:55.
Dopo essersi inceppato per mesi nella preparazione delle liste dei beni da trasferire, il federalismo demaniale potrebbe ripartire nei prossimi giorni. Il provvedimento con l'elenco dei beni esclusi dalla devoluzione per «comprovate ed effettive finalità istituzionali» è atteso in Conferenza unificata per il 24 marzo, e gli amministratori locali dovrebbero offrire un primo via libera: condizionato, però, all'avvio di una verifica bilaterale sugli immobili inseriti negli elenchi, che nonostante i quasi sei mesi di ritardo sulla tabella di marcia hanno ancora più di un problema.
Il passo avanti in conferenza serve al governo a segnare un altro tassello nel puzzle di attuazione del federalismo, e a questo scopo è disposto ad accettare la «stanza di compensazione» proposta dall'Anci. Sui tavoli della conferenza finirà un elenco di 2.584 beni non trasferibili, più 1.989 della Difesa, mentre il mattone demaniale che può prendere la strada verso comuni, province e regioni è composto al momento da poco meno di 11.800 beni.
La vicenda del federalismo demaniale, del resto, è ormai antichissima: i primi tentativi risalgono a un Ddl del 2001, quando ancora il patrimonio era tutto da esplorare, poi nel 2008 l'annuncio ufficiale del ministro dell'Economia Giulio Tremonti mise in moto la ricognizione del patrimonio e gli studi sugli immobili disponibili e quelli in uso governativo, cioè indisponibili.
Ma come ha fatto il Demanio a censire i beni «incedibili» e quelli da trasferire? Si è rivolto a tutte le pubbliche amministrazioni e ha chesto quali dei beni loro assegnati fossero effettivamente utilizzati. Queste, a loro volta, non hanno interpellato direttamente le infinite sedi nel territorio, ma si sono basate sulle risultanze documentali, evidentemente non sempre aggiornate; il che spiega come mai gli unici che hanno il polso della situazione sul territorio, cioè i sindaci, abbiano fatto rilevare parecchie incongruenze negli elenchi.
Ma il problema è anche un altro: l'elenco dei beni trasferibili, a una prima sommaria ispezione, non rivela gli edifici inportanti e valorizzabili di cui si è sempre parlato ma sembra un lunghissimo elenco di beni invendibili e in gran parte inutilizzabili.
Prendiamo Firenze, dove non mancano i beni demaniali: ci sono solo una decina di ex casse del fascio, abitazioni per lavoratori agricoli, tre appartamenti pignorati per debito d'imposta, alvei di torrenti, porzioni di terreni agricoli, sei case popolari, gallerie, rifugi antiaerei, e così via.
Non va meglio a Napoli, dove accanto a due chiese c'è un lunghissimo elenco di rifugio antiaerei (praticamente soitterranei) e di «cavità» (grotte) chissà da quanto tempo abandonate.
A Milano un pezzo interssante c'è: la villa vicereale di via Palestro, capolavoro neoclassico (da sempre in uso al comune); ma poi solo qualche appartamento qua e là e sempre rifugi antiaerei, alvei, cantine e magazzini. Roma, curiosamente, non è presente nell'elenco dei beni trasferibili.
Ma colpisce, soprattutto nei comuni minori, l'incedibile e deprimente teoria di beni assolutamente inutili, come i «tereni di risulta inalveazione», aeroporti abbandonati, ex caselli idraulici, «reliquati di roggia», ex campi di tiro a segno. Se questa è l'offerta dello stato ai municipi, saranno in molti a mostrare più delusione che gioia per le possibilità di «valorizzazione» aperte dal federalismo.
Serve probabilmente anche a questo il ruolo di primo piano reclamato dalle amministrazioni locali nella verifica paritetica che dovrà portare alla scrittura degli elenchi definitivi. Per raggiungere il risultato, l'Anci ha chiamato a raccolta i sindaci non solo per segnalare errori e inesattezze negli elenchi attuali, ma anche per indicare beni demaniali interessanti ma finora «dimenticati» dal censimento (i comuni hanno anche a disposizione una casella mail apposta: demanio@anci.it). Solo dopo aver raggiunto una base di dati condivisa, infatti, sarà possibile far partire i provvedimenti per gli effettivi passaggi di proprietà.
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