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Questo articolo è stato pubblicato il 31 gennaio 2011 alle ore 06:37.
Probabilmente è il capitolo meno noto dell'intera filiera nucleare. Anche perchè in gran parte è ancora tutto da scrivere. Ma non per questo è il meno importante. Parliamo dello smantellamento delle centrali atomiche: quasi fosse un organismo vivente, anche una centrale nucleare ha una sua esistenza e, quindi, una sua durata. Al termine della quale occorre procedere alle sue...esequie: smontare l'impianto e, se possibile, riportare il sito alla situazione originaria. O, quanto meno, mettere in sicurezza la struttura esistente. Operazione tutt'altro che facile, poichè si tratta di parti in genere radioattive, alcune delle quali anche fortemente. E perciò realizzabile con difficoltà e costi molto elevati.
Il problema, fino alla fine del secolo scorso, era sottovalutato anche perchè il parco delle centrali mondiali era ancora abbastanza recente. Oggi, però, poichè molte di esse (realizzate negli anni 60-70 del secolo scorso e appartenenti alla seconda generazione, la cui durata in servizio era prevista in 30-40 anni) si avvicinano alla fine del loro ciclo operativo, o addirittura sono già state fermate perchè di gestione anti-economica o pericolosa, la questione ha assunto una drammatica attualità. Anche per le enormi risorse finanziarie che richiede.
Perchè smantellare una centrale, si è ormai compreso bene, costa un'enormità di denaro. E si tratta di un'enormità crescente. Prendiamo il caso britannico (anche perchè Londra fu pioniera a livello mondiale nella creazione del nucleare civile). La locale Nuclear decomissioning Authority – istituita nel 2005 per provvedere a eliminare 39 reattori, 5 impianti di riprocessamento del combustibile e alcuni siti di ricerca ormai abbandonati – stimava un costo di 55,8 miliardi di sterline (pari a oltre 81 miliardi di euro dell'epoca), di cui 45,8 solo per il grande impianto di trattamento di Sellafiled (dov'è attivo un progetto-pilota che prevede l'utilizzo di un robot a controllo remoto per tagliare le lamiere più radioattive del reattore). Una massa colossale di denaro, di cui peraltro la Gran Bretagna, in profonda crisi finanziaria e costretta a comprimere fortemente ogni voce del proprio bilancio, oggi non dispone neanche in piccola parte.
Ma anche altrove non va meglio. "Trattare" i 25 reattori fermati negli Usa costerebbe, secondo la locale Nuclear regulatory Commission, tra 280 e 612 milioni di dollari per impianto. Grazie a un sovrapprezzo di 1-2 centesimi per kilowattora prodotto, risultano già accantonati 23,7 miliardi, con una stima di altri 11,6 miliardi da reperire per coprire l'intero parco di 104 centrali attualmente in attività. È chiaro, però, come ogni impianto faccia storia a sè. Il tristemente noto reattore 2 di Three Mile Island (in cui nel 1979 si verificò la parziale fusione del nocciolo) richiederebbe 805 milioni per essere smantellato. In altri impianti si va da 270 a 430 dollari per kw/h installato (Pickering, in Canada) a 200-500 (Rancho Seco, Usa), con proiezioni simili (tra 300 e 550 dollari per kw/h) per Grundemmingen, in Germania.