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Questo articolo è stato pubblicato il 09 settembre 2011 alle ore 06:38.

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In dieci anni ha cambiato sulla punta della baionetta tre regimi mediorientali suoi nemici, ma anche reali o potenziali alleati di Osama nella guerra santa contro il Grande Satana: la teocrazia talebana di Kabul, la dittatura saddamita di Baghdad e il dispotismo tribale di Gheddafi a Tripoli.

Le piazze arabe e le masse islamiche si sono ribellate ai loro despoti, ma nel senso opposto a quello sperato da Bin Laden, alla ricerca confusa di una terza via tra dispotismo islamo-nazionalista e teocrazia musulmana.

Le primavere arabe non si sa ancora che cosa siano, non sappiamo che cosa diventeranno ed è improbabile che nel giro di poco tempo la regione si trasformi in una filiale mediorientale di Westminster. Il ruolo degli islamisti e della Fratellanza musulmana nel migliore dei casi è ambiguo. L'Iran e l'Arabia Saudita sono ancora potenti. Settori dei vecchi regimi difficilmente si faranno da parte. Eppure dopo sessant'anni di repressione, in Medio Oriente è emersa un'opposizione anti autoritaria e in alcuni casi liberale, in grado anche di abbattere pacificamente le violenze dei tiranni. Per la prima volta si discute apertamente di istituzioni e di regole democratiche, peraltro già operative in Iraq e con più difficoltà in Afghanistan. Le piazze chiedono diritti, non sottomissione. Invocano una società libera, non un califfato. C'è un'atmosfera di libertà, decisiva per la diffusione delle idee democratiche e liberali di convivenza civile.

Alcune dinastie dispotiche sono state abbattute dall'intervento armato degli Stati Uniti e degli alleati. Altre sono andate in frantumi grazie alla mobilitazione di movimenti autoctoni senza legami diretti con l'America, ma anche loro hanno beneficiato del cambiamento di strategia politica deciso da George W. Bush e da Tony Blair l'indomani dell'11 settembre.

Quella mattina di dieci anni fa, il presidente conservatore americano e il premier di sinistra britannico hanno elaborato una risposta politica, culturale e ideologica capace di generare una potenza dimostrativa superiore agli attacchi terroristici. Bush e Blair hanno deciso di porre fine allo status quo dispotico mediorientale che per mezzo secolo ha illusoriamente garantito la stabilità nella regione e il regolare flusso di petrolio, convinti dall'idea rivoluzionaria che la democrazia e la libertà non fossero esclusive occidentali, ma aspirazioni universali.

L'America ha cambiato con la forza alcuni di quei regimi mediorientali e ha abbandonato con juicio quelli che non hanno garantito riforme, maggiore libertà e lotta al terrorismo. I gruppi di opposizione hanno ricevuto finanziamenti, i dissidenti sono stati ricevuti alla Casa Bianca, il rispetto dei diritti umani è diventato un costante argomento di pressioni diplomatiche. I raid aerei, le incursioni delle forze speciali e la guerra segreta di Bush e di Obama hanno fatto il resto.

L'epocale svolta strategica ha resistito agli errori macroscopici compiuti sul campo, ai costi ultra miliardari, all'impopolarità diffusa, ai passi indietro di Bush alla fine del suo secondo mandato, all'uscita di scena di Blair e alle promesse non mantenute di Obama di tornare a una politica estera pragmatica, vecchio stampo, meno idealista e più conservatrice.

Dieci anni dopo l'11 settembre, quell'intuizione strategica di Bush e Blair – regime change e freedom agenda – si è radicata nella politica estera occidentale, ha indebolito i dittatori locali e ha aperto un varco ai primaveristi arabi.

I protagonisti sono diversi, i metodi sono stati perfezionati, la tattica è stata ricalibrata. Ma, 10 anni dopo, la formidabile idea di sostituire lo status quo con la promozione della democrazia costituzionale è rimasta l'unica strategia possibile contro la cultura dell'odio. È una politica che fa coincidere interessi nazionali e grandi ideali, adatta a sconfiggere il progetto islamista di Bin Laden e, come ama dire Obama, capace di rimettere l'America dalla parte giusta della storia.

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