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Questo articolo è stato pubblicato il 07 settembre 2011 alle ore 12:45.
Nei molti articoli sul decennale dell'11 settembre, compresi quei pochi a ciglio asciutto, non mancano mai banali passaggi sul «disastroso errore della guerra in Iraq», sulle «falsi prove delle armi di distruzione di massa di Saddam», sulla «reazione eccessiva dell'America di Bush». Quelle decisioni, quelle analisi di intelligence, quelle politiche antiterrorismo sono certamente controverse, criticabili e discutibili, in realtà più ex post che prima, ma non è così automatico considerarle un errore, una menzogna, una vergogna come lasciano intendere dieci anni dopo gli improvvisati custodi della memoria dell'11 settembre.
Nel caso, chiedere a Barack Obama. L'attuale presidente era contrario alla guerra in Iraq, a differenza del suo vicepresidente Joe Biden, del suo Segretario di Stato Hillary Clinton, dei suoi due capi del Pentagono Bob Gates e Leon Panetta, del suo predecessore democratico Bill Clinton, dei suoi generali, del suo staff e di tutto il vertice del suo partito. Al momento del voto al Congresso, Obama non stava a Washington, era ancora un politico locale, sconosciuto, che si poteva permettere una posizione poco ortodossa. Tanto è vero che, una volta entrato al Senato nel 2005, Obama ha votato ripetutamente per il finanziamento della missione in Iraq, tranne una volta che gli è servito per differenziarsi da Hillary Clinton alle primarie presidenziali del partito. Questo il dettaglio: nel maggio 2005 ha votato a favore del finanziamento da 82 miliardi di dollari per la guerra, così come nel giugno 2006, quando ha approvato la richiesta di Bush di 94 miliardi e mezzo di dollari. Stesso voto, "sì", alla richiesta del settembre 2006 di finanziare le attività del Pentagono con 448 miliardi di dollari, compresi 70 per le operazioni militari in Iraq e Afghanistan. Nell'aprile del 2007 ha dato l'ok ad altri 90 miliardi, ma con la richiesta di ritirare obbligatoriamente le truppe, ma Bush ha posto il veto. Soltanto nel maggio del 2007 è arrivato il primo "no", mentre all'ulteriore richiesta del dicembre 2007 ha preferito astenersi dal voto. Nel 2008, Obama ha detto ancora "sì" alla guerra e alla legge speciale del Senato che affidava ai militari altri 162 miliardi di dollari, assieme a vari altri provvedimenti sociali e d'emergenza. Poi da presidente ha continuato la politica del suo predecessore. Ma è notizia di ieri che Obama potrebbe mantenere in Iraq fino a 4 mila soldati (ma c'è anche un'ipotesi da 14 mila), oltre la scadenza per il ritiro completo delle truppe americane decisa da un trattato firmato nel 2007 da Bush e dal premier iracheno Nuri Al Maliki.
La scelta di destituire Saddam è stata condivisa, bipartisan, unitaria. L'autorizzazione a invadere l'Iraq, votata nell'ottobre 2002 da un Senato a maggioranza democratica, è passata con 77 voti favorevoli e 23 contrari, cioè col voto della maggioranza dei senatori democratici, compresi il candidato presidente e il candidato vicepresidente di due anni dopo (John Kerry e John Edwards). Tra i più convinti sostenitori dell'intervento c'era il senatore Joe Lieberman, il candidato vicepresidente dell'anno precedente che per una manciata di voti in Florida non è entrato alla Casa Bianca al posto del terribile Dick Cheney. Ma il vero campione dell'intervento militare per rimuovere Saddam Hussein, addirittura già nel 1992, è stato a lungo Al Gore, ex senatore, già vice di Bill Clinton e quasi presidente degli Stati Uniti del 2000. Qualche giorno fa una rivista online di sinistra come Slate ha pubblicato un lungo articolo per ricordare che se in Florida le cose fossero andate in modo diverso e alla Casa Bianca fossero arrivati Gore e Lieberman, invece che Bush e Cheney, gli americani in Iraq ci sarebbero andati lo stesso. Forse anche prima di Bush e Cheney.
Facile, quindi, dire ora che la guerra in Iraq è stata un errore, ammesso che lo sia stato. Oggi sembra che sia stata una decisione isolata di Bush, ma allora erano favorevoli anche i maggiori intellettuali della sinistra liberal, il gotha degli editorialisti progressisti, i politici democratici. Il New York Times era in prima fila, ma anche le tradizionali centrali del giornalismo liberal, dal New Yorker a New Republic, spingevano per l'intervento.
C'è altro. Subito dopo l'11 settembre la Camera ha autorizzato Bush a usare la forza per rispondere agli attacchi dell'11 settembre con 420 favorevoli, uno contrario e dieci astenuti. Il Senato ha fatto lo stesso con 98 voti a favore, nessuno contrario e due astenuti (entrambi repubblicani). Il Patriot Act del 2001, la prima legge emergenziale diventata il simbolo delle pretese violazioni dei diritti costituzionali varate da Bush e Cheney (almeno secondo "Fahreneit 9/11" di Michael Moore), è stata approvata dal Senato con 98 voti a favore e un solo voto contrario. Ogni volta che Bush, e poi anche Obama, ha chiesto il rinnovo del Patriot Act il voto è arrivato senza alcun problema. Obama aveva promesso di cancellare l'architettura giuridica antiterrorismo di Bush, da Guantanamo alle corti speciali, ma al secondo giorno di lavoro ha capito che quelle politiche erano necessarie e ha riproposto quasi tutte le scelte prese del suo predecessore.
Una delle questioni più goffamente ricordate negli articoli sul decennale dell'11 settembre è quella delle armi di distruzione di massa. Oggi sembra che le prove siano state create artificialmente da un Bush manipolatore di rapporti di intelligence per giustificare una guerra imperialista e per il petrolio. Allora la situazione era diversa. Nessuno, nemmeno i più contrari all'intervento armato, contestava le prove sulle armi di sterminio in dotazione a Saddam, anche perché Saddam quelle armi le aveva usate sul serio e non negava di averle. Sulla questione c'era anche un balletto di accuse con gli ispettori Onu da almeno dieci anni (degli ispettori Onu, Bill Clinton diceva «invece che disarmare Saddam, è stato Saddam a disarmare loro»).
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