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Questo articolo è stato pubblicato il 04 aprile 2012 alle ore 08:19.
L'ultima modifica è del 04 aprile 2012 alle ore 06:36.

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Che bisognasse attuare un inedito riformismo "lampo" il Sole 24 Ore lo aveva scritto il primo giorno del Governo Monti. Incombevano le elezioni amministrative di primavera, e il tempo franco di cui avrebbe goduto l'Esecutivo dei tecnici sarebbe durato non più di qualche mese. Il ritorno dei partiti sulla ribalta della politica in questi giorni di avvio della campagna elettorale è la conferma di quella preoccupazione.

Intendiamoci: che le forze politiche recuperino le responsabilità decisionali che la democrazia chiede loro è un bene. Purché questo ruolo venga svolto nell'interesse di un Paese che è ancora in pieno guado, esposto ai giudizi dei mercati internazionali. Perseguire questo interesse, oggi come cinque mesi fa, significa sostenere riforme vere. A cominciare proprio da quella del lavoro. È presto per giudicare l'esito del vertice tra Mario Monti e i leader di maggioranza. Ciò che conta è che l'intesa non sia stata raggiunta al prezzo di uno svuotamento della riforma.

L'efficacia di questa ampia revisione del mercato del lavoro è nel superare il dualismo tra lavoratori protetti e precari, nell'abbattimento del muro che separa insider e outsider. Se l'intesa raggiunta nel vertice di ieri notte si spingesse - nella scrittura del testo di legge - troppo al ribasso, con il ritorno a una forte rigidità sui contratti a tempo indeterminato in cambio di un nuovo alleggerimento delle tutele in ingresso, al di là della necessaria riduzione dei carichi burocratici, la riforma rischierebbe di essere vanificata. Sarebbe uno scambio comprensibile politicamente, ma dagli esiti disastrosi per l'efficacia del provvedimento. Significherebbe tornare a innalzare quel muro che si voleva abbattere, con buona pace della giusta aspirazione dei lavoratori precari ad avere più garanzie e dell'altrettanto giusta esigenza delle imprese di avere un po' più di flessibilità in uscita.

Il ritorno sulla scena dei partiti, in questo modo, avverrebbe nel segno del peggiore consociativismo antiriformista. Un passo indietro che, unito all'avvio della nuova fase elettorale, rischierebbe di chiudere in anticipo la stagione breve del riformismo montiano.
Oggi si potrà valutare l'esito sulla base del Ddl definitivo, di certo non ci possiamo permettere l'interruzione precoce dell'azione riformista. Ieri il Financial Times è tornato a mettere in discussione la solidità dei nostri conti pubblici. Lo spread balla pericolosamente ancora sopra i 300 punti, il Pil resterà negativo in tutto il 2012, per le imprese il credito è una chimera. C'è ancora molto da fare. Va soprattutto rilanciata la crescita economica attraverso una riduzione della pressione fiscale su imprese e lavoro finanziata da tagli mirati alla spesa pubblica.

Sul Sole 24 Ore di domenica scorsa Marco Rogari ha anticipato lo stato di avanzamento dei lavori sulla spending review. L'analisi è quasi completata per sei ministeri, l'obiettivo prudenziale è di ricavare 10 miliardi. Sarebbe bene fossero di più.
I modelli virtuosi, in questo senso, non mancano. Nel quadriennio 1994-97 in Canada la spending review ha portato una contrazione della spesa pubblica di oltre il 10%, con una riduzione del pubblico impiego del 19%, pari a 45mila unità. In Finlandia si prevede uno sfoltimento del personale pari a 4.884 unità tra il 2011 e il 2015. In Giappone il risparmio è stato di 42 miliardi di dollari, in Olanda di 35 miliardi di euro.

Ma il caso di scuola resta quello inglese. L'attività di spending review è proseguita con round successivi tra il 1998 e il 2010 con tagli ripetuti alla spesa pubblica nell'ordine di 20 miliardi di sterline annui. Gli obiettivi per il quadriennio 2011-2015 sono ancora più ambiziosi: tagli alla spesa pubblica per 81 miliardi di sterline, risparmi sui ministeri per un importo medio pari al 19%, taglio di 7 miliardi di sterline per il welfare state e taglio del 7% agli enti locali. Il settore pubblico, nel periodo considerato, vedrà una riduzione di 490mila dipendenti.
Difficile poter pensare a qualcosa di analogo in Italia. D'altra parte bisogna essere seri: all'interno della spesa pubblica, al contrario di quanto un certo populismo vuole credere, non ci sono tesoretti da raccogliere con facilità. Le grandi cifre delle uscite dello Stato e degli Enti locali sono legate a stipendi, sanità, pubblica istruzione.

Proprio per questo, però, serve ancora un riformismo forte. Tagliare la spesa pubblica in modo selettivo significa incidere in interessi forti, operando scelte impegnative e difficili. Solo un Governo politicamente in piena salute, supportato da partiti responsabili davanti al Paese, può riuscire dove i precedenti esecutivi hanno fallito.

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