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Questo articolo è stato pubblicato il 08 maggio 2012 alle ore 08:15.

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Il tramonto dell'armata leghista che ha occupato la fascia pedemontana da Cuneo a Pordenone, la linea Maginot della piccola e media impresa italiana, è un film non ancora in programmazione. Per ricavare una morale dall'andamento elettorale della Lega Nord è consigliabile tagliare gli estremi, malgrado l'enfasi su Verona dell'ex ministro degli Interni: «La vittoria di Tosi vale doppio».

Basta elidere il trionfo di Verona e il tonfo di Monza, la città in cui il sindaco uscente Marco Mariani non andrà al ballottaggio. Una sorta di testa-coda. Al quale si aggiungono piccole-grandi batoste che invece tratteggiano una linea di tendenza. Rotolano teste di primi cittadini lumbard, simboli stessi del l'identità leghista: capitola il sindaco di Cassano Magnago, il paese dell'Umberto, e di Mozzo, nella bergamasca, luogo in cui vive Roberto Calderoli. Pure a Como il candidato bossiano non va neppure al secondo turno. Tradimenti lumbard.

Il partito arretra in Emilia-Romagna e tiene a fatica in Piemonte. A Sarego, nel vicentino, dove periodicamente si riunisce il parlamento della Padania, il nuovo borgomastro sarà addirittura un grillino.

Pdl e Lega, prima alleate e poi divise, avevano messo in conto una sorta di harakiri elettorale. Dice Maroni: «Abbiamo pagato un prezzo, il prezzo di vicende che hanno avuto risalto sui giornali, ma nonostante questo la Lega sopravvive». I leghisti pagano gli anni per nulla esaltanti alla guida del Paese. E uno scandalo politico-finanziario concepito dal cerchio magico nelle stanze spoglie di via Bellerio che avrebbe spinto all'autoscioglimento partiti meno coriacei.

Invece, il partito leninista e nordista dilaga a Verona, anche se la città scaligera è tutto meno che un caso di scuola. Solo qui può accadere che 14 esponenti di primo piano del Pdl abdichino al loro partito per aderire a un'altra forza politica. L'8 settembre del Pdl veronese non è replicabile. I consensi bisogna conquistarseli casa per casa. E non si può escludere che la Lega di Bobo Maroni torni a farlo, a patto che compia quel parricidio che gran parte del movimento ormai pretende. Tosi, sul tema, è andato giù piatto: «Chi spinge Bossi a ricandidarsi vuole il suo male».

Le ragioni che dettero vita al ciclo leghista, seppure mutate per l'inevitabile effetto della crisi economica, rimangono inalterate: il popolo delle partite Iva chiede una difesa d'ufficio contro uno Stato che percepisce come invasivo e inefficiente. Venti anni fa la protesta montava contro le incursioni delle Fiamme Gialle, oggi contro Equitalia. Le questioni sono sempre le stesse, esasperate da una recessione che quotidianamente scuoia le piccole e medie imprese. La Lega perde i sindaci ma non i militanti, mobilitati affinché il movimento acceleri il suo ritorno alle origini. La Lega di lotta che finalmente faccia tesoro degli insegnamenti catalani del professor Miglio.

La nuova linea politica leghista l'ha declinata Flavio Tosi nella conferenza stampa di ieri pomeriggio: «Parleremo di alleanze dopo le politiche del 2013. Il federalismo è il nostro obiettivo. E stringeremo accordi solo con chiunque ci darà garanzie in questo senso».

Un partito opportunista, insomma. Com'è obbligatorio che siano per statuto e vocazione tutti quei movimenti che aspirano a riforme radicali dell'ordinamento statuale. Maroni raddoppia la dose, come se avesse capito che ora il gioco si fa terribilmente serio: «Dopo questo difficile banco di prova, l'attività politica della Lega riprenderà con maggiore intensità».

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