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Questo articolo è stato pubblicato il 14 aprile 2011 alle ore 19:28.

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«Questo è un periodo speciale dell'anno, gli studenti stanno completando i loro progetti e quindi c'è molta creatività nell'aria». Lui è Clay Shirky, camicia a quadrettini verdi e occhialini trasparenti, seduto su una comoda poltrona in una delle meeting room dell'Institute of performing arts della New York University dove insegna teoria e pratica dei social media e, dal prossimo anno, anche giornalismo.

Un luogo ben lontano dai tipici dipartimenti universitari, a metà tra un loft newyorchese e un teatro d'avanguardia, con decine di schermi video sulle pareti in mattone, installazioni artistiche sparse qui e lì, un calcetto e un angolo caffè per i momenti di relax, studenti e insegnanti che vanno e vengono. «Sì, è un posto speciale» ammette Shirky, una delle menti più attente all'analisi dei rapporti tra web, media e società.

Per sfruttare bene le potenzialità dei media contemporanei, è convinto Shirky, di creatività ce ne vuole. «Oggi è chiaro che i mezzi sono tutti fortemente integrati. Esempio lampante è l'uso che ne è stato fatto durante le recenti rivoluzioni in Egitto e Tunisia. Continuavamo a pensare che internet e il web fossero in qualche modo distinguibili dai telefoni cellulari. Pura sottovalutazione. Le rivolte ci hanno mostrato che queste tecnologie sono ormai fuse, i cellulari sono solo una delle componenti di un unico network». E, nel caso degli eventi nordafricani, hanno assolto i tre compiti principali che ci si aspetta dalla comunicazione digitale.

«Hanno consentito alle persone di sincronizzare le proprie opinioni, il malcontento, di individuarsi, riconoscersi e capire che erano in tanti a volere dei cambiamenti. Poi, hanno permesso di coordinarsi, darsi appuntamento per azioni collettive di protesta. Infine, hanno favorito la documentazione di quello che avveniva. Tutto questo al di fuori dei media ufficiali controllati dai governi». Fin qui per l'uso dei social media da parte della popolazione. Ma la vera sorpresa è stata la capacità di Al Jazeera, la televisione più influente nel l'area, di utilizzare queste stesse strategie di comunicazione insieme al lavoro di reportage professionale sul campo. «Al Jazeera ha dimostrato come si può fare dell'ottimo giornalismo integrando in modo eccellente un media tradizionale, come la Tv, con tutti i nuovi strumenti. Quando gli è stato impedito di fare il proprio lavoro in piazza, i giornalisti di Al Jazeera hanno messo una webcam sulla finestra della loro camera d'albergo e hanno continuato ad aggiornare Twitter, a caricare foto e video che poi giravano in rete, a usare tutti i canali disponibili. Se cerchi di isolare gli effetti della televisione tradizionale, e quindi del giornalismo classico, dalla comunicazione via web, è impossibile capire cosa è successo in Egitto.

Webcam sulla strada e Tv satellitare nel cielo: due parti dello stesso ecosistema mediatico. Non c'è più una cosa chiamata Tv, una chiamata web, una chiamata cellulare... we are done with that, è finita». Non è però solo una questione di tecnologia. Non basta avere uno o più di questi strumenti tra le mani per fare buona comunicazione. È necessario puntare sulla qualità di quello che si racconta e di come lo si fa. Già nel suo ultimo libro, pubblicato in Italia nel 2010 da Codice edizioni, Shirky parlava di "Surplus cognitivo", il tempo libero che si genera come risorsa globale condivisa grazie al lavoro collettivo in rete. Un surplus che può tradursi in una produzione culturale di grande valore per tutti. «Negli ultimi cinque anni abbiamo superato il cosiddetto digital divide tecnologico: oggi la stragrande maggioranza degli adulti sul pianeta è connesso, anche solo via cellulare. Il problema vero, però è il divide partecipativo, cioè l'interesse a utilizzare questi strumenti per dare voce alle proprie idee e costruire qualcosa di comune. Non si tratta solo di stare connessi, ma di creare esperienze di grande valore civico, far crescere un capitale sociale condiviso. E vari studi ci dimostrano che questa capacità è fortemente correlata con il grado di istruzione». E la creatività quanto conta?

«Moltissimo». Clay Shirky sottolinea quello che dice agitando le mani e annuendo vigorosamente con la testa. «È la qualità, l'originalità, che rende interessante una certa proposta in rete. Solo così diventa virale, si diffonde, attira le persone. C'è spesso questo equivoco: prima si realizza un prodotto e poi lo si rende virale in rete. Ma non si può! Ogni messaggio, ogni campagna, saranno capaci di coinvolgere le persone solo se progettati in modo creativo dall'inizio». Un monito per chi lavora nella comunicazione. Non ci sono ricette, non ci sono cassette degli attrezzi predefinite, come si insegnava agli aspiranti giornalisti fino a poco tempo fa. «A parte gli aspetti etici e deontologici, che naturalmente rimangono gli stessi, il grosso problema oggi è riuscire a scegliere la forma migliore per un certo contenuto: un video, uno slide show, un pezzo lungo e articolato, un breve post stile blog, una visualizzazione grafica dei dati... Non c'è modo di insegnare queste cose, ci vuole una conoscenza sufficientemente approfondita dei vari media e una capacità di giudizio flessibile a seconda della situazione. In generale, però, ci aspettiamo che ogni giornalista debba saper lavorare con almeno due o tre media diversi. C'è un unico grande nuovo strumento del mestiere: è la piattaforma digitale, che include tutti gli strumenti oggi disponibili e quelli che verranno man mano creati. È una situazione in continua evoluzione, dobbiamo continuamente aggiustare il tiro. Una vera e propria sfida».

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