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Questo articolo è stato pubblicato il 25 giugno 2011 alle ore 18:54.

Ci sono due cani davanti a un computer. «Su internet – dice uno dei due – nessuno sa che sei un cane». È la battuta di una celebre vignetta, pubblicata dal New Yorker a metà degli anni 90, quando le email e il web erano la novità del momento. Quindici anni dopo, quella stessa battuta ha un sapore agrodolce. Per non dire doppiamente amaro.
Da un lato, i governi, i servizi segreti, ma anche gli eserciti e i terroristi, hanno trovato nell'internet il metodo migliore per spiare, controllare, fare intelligence e magari trafugare qualche piano militare o industriale, senza bisogno di fare pedinamenti o, peggio ancora, di venire scoperti. «Negli ultimi cinque anni abbiamo monitorato un'aumento delle operazioni di spionaggio», spiega Mikko Hypponen, il guru della finlandese F-Secure, incontrato due settimane fa in Estonia, a una conferenza della Nato sulla guerra digitale. «Sembrano venire perlopiù dalla Cina, ma non si può dire con certezza». Chi dispone di bravi programmatori e analisti software, può trasformarsi in un ignoto segugio. Che non lascia tracce.
Dall'altro lato, non tutti i cittadini sono uguali. Ci sono quelli che, magari a otto anni, hanno cominciato a scrivere il codice, le molte forme del linguaggio digitale delle macchine, e lo padroneggiano. Sono tanti, sono in tutto il mondo. Li chiamano hacker, un termine improprio perché ormai abbraccia tutto lo spettro che va dal ludico al criminale. Difatti si divertono. In qualche caso fanno soldi. In qualche altro si ergono a censori del mondo, o meglio: ad anti-censori. Se sono bravi, sanno anche loro come diventare cani ignoti dell'internet.
Basta prendere LulzSec, una specie di società segreta dell'hackeraggio che da maggio a oggi ha letteralmente alzato il livello della partita che si gioca nel cyber-spazio (e che ha appena siglato una tregua via Twitter). La settimana scorsa, mentre attaccava il sito della Cia rendendolo inutilizzabile, LulzSec – un nome che origina dallo slang digitale e che vuol dire "prendiamoci gioco della sicurezza" – annunciava tranquillamente su Twitter il numero telefonico da chiamare per suggerire altri siti da attaccare. Il massimo dell'impunità.
Quando martedì scorso Scotland Yard (in collaborazione con l'Fbi) ha messo le mani su Ryan Cleary, 19 anni, indicandolo come il possibile capo della banda, quelli di LulzSec si sono messi a ridere con un tweet: «Chissa chi è quel povero bastardo che hanno catturato».
In due mesi, da quando sono apparsi dal nulla, hanno attaccato la Fox; hanno diramato le transazioni di 3mila Bancomat inglesi; hanno pubblicato false storie sul sito dell'americana Pbs e poi hanno attaccato la Sony. Ma ormai, il bollettino di guerra è quotidiano. In ogni occasione, spiegando il perché: la casa giapponese, ad esempio, è rea di aver lanciato un'azione legale contro George Hotz, il 21enne del New Jersey che era riuscito a violare e modificare la PlayStation3. Da allora, è stata solo un'escalation: attacchi sempre più sofisticati e coraggiosi. «Le leggi cambiano – scrive Scot Terban, sul sito Infosec Island – e i Lulz rientrano ormai nella categoria dei "terroristi domestici"». Rischiano grosso.
Anche perché cane morde cane: non ci sono solo l'Fbi e Scotland Yard. C'è anche gente come The Jester. Ovvero un altro hacker, che si proclama cacciatore solitario dei LulzSec. «In tutte le cose c'è una diversa quantità di male e bene – filosofeggia sul suo sito – ma il trucco sta nel capire la percentuale e comportarsi di conseguenza». Un modo criptico per autodefinirsi hacktivist for good – ovvero un attivista dell'hacking, proprio come LulzSec – ma dalla parte del bene. E il "bene" è quello ufficiale, il bene della Nazione americana: fra le imprese di The Jester, c'è un attacco DDos contro la celebrità mondiale Wikileaks, poche ore prima dell'annunciata pubblicazione degli imbarazzanti cablogrammi della diplomazia statunitense. A quei tempi, i suoi rivali erano gli "hacktivisti" di Anonymous, dalle cui costole pare sia nato LulzSec.
Ma giustappunto, il problema resta sempre quello: il cyber-anonimato. Gli addetti ai lavori lo chiamano «il problema dell'attribuzione», ovvero l'incertezza su chi sia il vero autore di un attacco digitale. «Il Pentagono annuncia di voler attaccare militarmente chi attacca digitalmente gli Stati Uniti, ma è un'idea senza senso», osserva Charlie Miller, una celebrità fra gli analisti software, anche lui alla conferenza Nato. «Se per scoprire il colpevole usi soltanto i bit, non puoi avere nessuna certezza. Chi attacca, può far credere di essere in Cina ed essere in realtà in qualsiasi altra parte del pianeta».
Questo non vuol dire che i LulzSec resteranno immuni ai problemi con la giustizia. Vuol dire solo che, ora che il mondo digitale sta prendendo possesso del mondo reale, il battito d'ali di una farfalla in Cina può davvero scatenare un uragano dall'altra parte del mondo.
Chi ha la competenza tecnica per trasformarsi in un "cane" ignoto, può fare cose che voi umani non potete immaginare. E questo, nel medio e lungo termine, non depone bene per i paesi dove non si studiano abbastanza matematica, computer sciences e non si padroneggia il codice che fa girare il mondo.
Ascolta il reportage di Radio24: "La Nato e la guerra digitale"
©RIPRODUZIONE RISERVATA
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