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Questo articolo è stato pubblicato il 09 ottobre 2011 alle ore 16:01.
Con la sua malconcia Leica M9 digitale al collo, sempre pronto a scattare foto, e la sua ampia capigliatura, Joi Ito sembra più giovane dei suoi 45 anni. Fa il giro del mondo almeno due volte al mese, dagli Usa alle sue case in Dubai e Giappone, dove vive la moglie. Il ritmo lo lascia spesso esaurito, afferma in un accento americano diluito dall'ultimo viaggio da cui è appena tornato.
Nessuno può comunque accusare il nuovo direttore del Media Lab del Massachusetts Institute of Technology di mancanza di energia. Occupato da poco il nuovo posto, è un vulcano di idee. «Abbiamo 150 ragazzi tra i migliori al mondo», dice seduto sul sofà nel suo ufficio poco arredato, pieno più di libri di immersioni subacquee, il suo ultimo hobby, che di tecnologia: «Sono incoraggiati a fare qualsiasi cosa».
Per tutti gli appassionati di tecnologia, il MediaLab è il nirvana. Due edifici moderni, disegnati da I.M. Pei e Maki Associates, a fianco del campo neoclassico del Mit e laboratori che sono sede di avventure intellettuali totalizzanti, dalla robotica alle nanotecnologie. Ci sono stanze con intestazioni intriganti come Materia mediata, Spazi virali e Opera del futuro. Studenti e professori vagano con sguardo distratto, sulle ali delle loro visioni barocche del futuro. Per essere ammessi non è necessaria una laurea. Piuttosto ci vuole un portafoglio di lavori che possano eccitare un professore. Una volta ammessi, non ci sono rette. Gli studenti ricevono uno stipendio mensile di circa 2.000 dollari. Per ottenere un PhD o un Master, basta fare i corsi base per l'uso di macchine e dispositivi mostrati nei workshop e soddisfare il professore. Per il resto, dipende da te.
Un'istituzione accademica così peculiare richiede una leadership peculiare, e il nuovo direttore ben ne interpreta lo spirito: non ha lauree univesitarie, ma sacchi di kudos nella comunità tecnologica. In ogni caso è considerato una delle persone più influenti per la tecnologia. Negli anni Novanta ha fondato il primo Isp in Giappone, e da allora ha fatto il business angel nel suo paese e in Usa, anche per società come Twitter, Flickr e Last.fm. È amico di Reid Hoffman, il fondatore di LinkedIn, di cui sta studiando una versione giapponese. Prima di arrivare al MediaLab, Ito è stato chief executive di Creative Commons, l'organizzazione non profit impegnata a identificare un sistema di copyright adatto per la cultura ispirata alla condivisione di internet.
Nei suoi 25 anni di vita, dal Mit MediaLab sono usciti una serie di prodotti commerciali, dall'E-Ink utilizzato nel Kindle al videogame di Guitar Hero ai Minsdstorms di Lego, così come diversi progressi in medicina. È stata la sede di alcuni dei lavori più provocatori della convergenza digitale. Ito punta a rafforzare i rapporti con il business. Da anni il Lab ha accettato gli sponsor aziendali: nella lobby dell'edificio c'è una placca con circa 60 società, da Siemens a Google. Punta a fare in modo che il Lab prenda il posto di istituzioni come i Bell Labs e lo Xerox Park, laboratori di origine aziendale che hanno fatto ricerche fondamentali indipendentemente dalle applicazioni commerciali. «Oggi anche le aziende che hanno un'aggressiva cultura della ricerca hanno anche una sorta di prevenzione sul tipo di ricerca che fanno. A dispetto di tutta la sua apertura, Microsoft non favorirà un laboratorio dove i ricercatori giocherellano con i cervelli dei topolini di fianco all'Opera del futuro», afferma.
Il vantaggio del suo approccio aggressivo è che conduce a un'innovazione "selvaggia" e casuale: «Vogliamo che le aziende vengano qui e interagiscono esplorando aree laterali a quella loro specifica». Una grossa azienda potrebbe così lavorare con uno o due ricercatori oppure acquisire una "membership" al Media Lab con l'accesso a tutte le sue attività. La sfida più grande come istituzione accademica è fare in modo che tanti soggetti con tanti interessi diversi riescano a collaborare intorno alla ricerca indiretta. Potrebbe diventare una soluzione caotica. Ma Ito è convinto che il collante stia nel lavoro concreto. «Abbiamo tutti i tipi di materie e professori, tutti pronti a collaborare su qualsiasi tipo di cosa – spiega –. Il rischio è che tutti gli esperti parlino, ma alla fine ognuno parla con un diverso linguaggio accademico. Ma se fanno qualcosa insieme come costruire un robot didattico, tutto diventa reale».
Il background educativo non convenzionale di Joi Ito ne fa una scelta naturale per la guida del Lab: «Mia sorella mi definisce come uno che apprende guidato dagli interessi», afferma indicando quell'approccio di "imparare facendo" che i giapponesi chiamano genba shugi. A 12 anni voleva comprare un pesce tropicale, ma il negoziante ritenne che non fosse grande abbastanza per averne uno. Il giovane Ito iniziò a lavorare nel negozio, pulendo 90 vasche al giorno e imparando tutti i nomi latini dei pesci. Così è stato in seguito con i computer, con la fisica, con la musica. Quando ha voluto saperne di più di cinema, ha lavorato direttamente su un set. Ha anche trasformato la sua passione per il game multiplayer World of Warcraft in una popolare presentazione sulla collaborazione e la leadership. Come chief executive di Creative Commons ha deciso che doveva saperne di più del Medio Oriente e si è spostato così a Dubai. Quando ha iniziato ad appassionarsi di immersioni, ha «studiato fisiologia, fisica, ottica: non è il modo di imparare adatto a tutti, ma credo che la cultura costruita in maniera interdisciplinare sia essenziale e utile».
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