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Questo articolo è stato pubblicato il 16 giugno 2012 alle ore 18:18.

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Un mercato per la ricerca. L'università cerca finanziamenti ma anche sbocchi lavorativi per i propri giovani ricercatori. L'eccellenza accademica italiana si scontra con la debolezza strutturale del sistema-Paese: la difficoltà ad accompagnare i ricercatori nelle fasi successive.

«Ci vorrebbe una regia istituzionale per far correre in maniera coordinata le potenzialità dei nostri centri di eccellenza, ma il nostro Paese per definizione fa fatica ad avere una regia in qualsiasi campo, in quello della ricerca scientifica a maggior ragione», dice Alberto Silvani, direttore generale dell'Università degli Studi di Milano, già dal 2005 responsabile di Ateneo per il trasferimento tecnologico dopo una lunga carriera come dirigente di ricerca del Cnr, dove si è occupato, come economista territoriale, di politica della ricerca e dell'innovazione.

«La competizione nel settore dei brevetti da parte del privato cresce come complessità, dimensione, velocità. Cambia per ogni area scientifica, perché le esigenze sono diverse. L'università italiana si sta facendo i muscoli ma è comunque all'inseguimento». Il problema non è solo il privilegio accademico del singolo ricercatore, ma soprattutto di associare analisi di costo e opportunità alla ricerca. Capire se è fattibile brevettare e perché lo è. «Gli indicatori sono complessi: il brevetto da un lato è una pubblicazione scientifica del ricercatore, dall'altro è anche un modo per avere un ritorno economico e finanziare nuova ricerca. In molti casi non serve». A Milano il rapporto tra candidature e deposito di brevetti è di 3 a 1, con 200 invenzioni in 20 anni. Il quadro però è destinato a cambiare.

Entro la fine del mese i capi di Stato della Ue dovranno decidere per il nuovo trattato che darà il via operativo al brevetto unico europeo. Bisogna decidere la sede del tribunale competente a dirimere le controversie: in lizza ci sono Monaco di Baviera, Parigi e Londra. Se passa il nuovo assetto, cambia tutto. Già oggi è possibile fare richiesta di un brevetto all'Epo (European Patent Office), che però deve poi essere validato in ognuno dei 27 Paesi europei. Invece, dopo la ratifica, la validità sarà automatica in 25 Paesi. Restano fuori l'Italia e la Spagna per il problema della lingua: infatti sono state previste solo tre lingue di lavoro (inglese, francese e tedesco) con traduzioni nelle altre lingue a richiesta e in modo automatico.

Roma e Madrid non ci stanno: con gli spagnoli perseguiamo anche in quest'ambito la "guerra delle lingue" per tutelare l'identità e il ruolo culturale. «La lingua di lavoro è l'inglese. E le traduzioni necessarie sono anche in giapponese, coreano, cinese e altre lingue tra le quali emerge sempre di più il brasiliano, ad esempio. Considerando che a fare più brevetti al mondo sono i cinesi, non mi preoccuperei dell'inclusione dell'italiano. Piuttosto, ridurrei le registrazioni e per quanto possibile anche le traduzioni», aggiunge Silvani.

L'anno scorso l'Epo ha ricevuto 245mila richieste di brevetto, il record nei suoi 34 anni di storia. Ne sono stati approvati 62.100. Tra gli europei il Paese che ne registra di più in assoluto è la Germania, mentre la quota più ampia è quella degli Usa. Aumentano costantemente le richieste e i rilasci per la Cina, che a livello mondiale insidia il primato degli Usa.
La soluzione per l'Italia? «Non c'è una regia, ma dal basso emerge un modello su base regionale, come in Lombardia e in altre parti d'Italia», dice Silvani. L'obiettivo è assistere il ricercatore e allentare gli ostacoli al trasferimento tecnologico. Creare una rete capace di replicare i successi.

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