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Questo articolo è stato pubblicato il 24 novembre 2012 alle ore 20:15.

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Adattamento è la nuova parola d'ordine per gli scienziati del clima. A ogni nuovo uragano, a ogni ondata di siccità, l'interesse degli esperti si allontana sempre più dall'eterno quesito "sarà colpa dell'effetto serra?" per focalizzarsi sulle strategie di sopravvivenza delle comunità più colpite.

«Le città si adattano o se ne vanno», ha detto il sindaco di New York, Michael Bloomberg, dopo l'uragano Sandy. E anche alla conferenza Onu di Doha sul Climate Change, che comincia domani, si parlerà molto di "resilience", quella capacità di recupero che manca ai moderni insediamenti urbani. Nella relazione sul clima pubblicata la settimana scorsa dall'Agenzia europea per l'ambiente, si prevede che gli eventi climatici estremi diventeranno sempre più intensi anche da questa parte dell'Atlantico. Che fare, per limitare i danni? Imparare dall'esperienza. «Negli ultimi 50 anni, i danni causati dai disastri naturali sono cresciuti esponenzialmente, anche per l'aumento della popolazione globale e delle sue attività economiche», sostiene il noto climatologo americano Roger Pielke. Là dove prima un'onda anomala si abbatteva su una costa deserta, senza danni, oggi si abbatte su un villaggio, con tutte le conseguenze del caso. «Ma non bisogna rassegnarsi all'idea che le emergenze aumentino di pari passo con le attività umane», afferma Pielke. Il suo collega William Hooke, dell'American Meteorological Society, concorda e porta l'esempio dell'aviazione civile: «Nello stesso arco di tempo, il numero di voli è quadruplicato, ma gli incidenti sono rimasti costanti, o addirittura sono calati». Qual è la differenza? Dopo un disastro naturale, l'istinto porta a ricostruire tutto com'era prima. Dopo un disastro aereo, invece, la prima preoccupazione è cambiare la struttura del velivolo, nelle parti che potrebbero essere all'origine del disastro. Chi ha ragione? L'industria aeronautica, naturalmente.

Ma ci sono anche città che non si rassegnano. Chicago ha in corso un progetto per eliminare l'asfalto da un quarto delle sue strade, che vengono trasformate in viali alberati con una pavimentazione permeabile all'acqua, che in caso di piogge torrenziali le trasforma in fiumi. Stuttgart ha modellato la sua pianificazione urbana sulle esigenze di mitigazione dell'isola di calore che si forma sulla città: grazie a un monitoraggio, sono stati individuati i corridoi del vento e per non ostruirli sono state vietate le costruzioni alte su quei tracciati. Seul, dopo aver tenuto per cinquant'anni il fiume Cheonggyecheon imprigionato nelle sue viscere, ha smantellato l'autostrada che ci correva sopra e lo ha restituito alla luce del sole. Yonkers, quarta città dello Stato di New York, ha fatto lo stesso con il fiume Sawmill. New York sta ripristinando le vaste aree umide che erano state bonificate lungo le sue 500 miglia di coste e ha vietato la ricostruzione di centinaia di case spazzate via dall'uragano. Kuala Lumpur ha costruito uno Smart Tunnel sotto il centro, per incanalare una parte del traffico, ma anche per sfogare le acque che montano in caso d'inondazione.

E questo è solo l'inizio. Siamo abituati a compilare una valutazione d'impatto ambientale per qualsiasi impianto, dal pannello solare a un nuovo aeroporto. Lo stesso tipo di valutazioni andrebbero fatte anche per gli edifici. Ricostruire là dove non c'è sicurezza del futuro non ha senso. A maggior ragione, costruire edifici o insediamenti nuovi in aree che sarebbe più ragionevole lasciare vuote mette a rischio intere comunità. Pianificare guardando lontano e in sinergia con la natura è la prima difesa contro i cambiamenti climatici.

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