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Questo articolo è stato pubblicato il 13 gennaio 2013 alle ore 16:28.
Interi impianti sotto il mare, spesso a migliaia di metri dalla superficie degli oceani. Reti di grandi stazioni di pompaggio, grandi come palazzine, connesse da pipeline che si snodano sul fondo marino, per poi risalire assieme fino ai grandi scafi delle petroliere ancorate nell'area del giacimento. «Si chiama subsea production ed è ormai la tecnologia di frontiera per tutta l'industria petrolifera mondiale – spiega Paolo Andreussi, docente di Ingegneria chimica all'Università di Pisa e fondatore della Tea Sistemi – un trend cominciato nel Mare del Nord, dove compagnie come la Statoil norvegese hanno cominciato a operare in condizioni estreme.
Che significa una cosa molto semplice: mettere in fondo al mare, a 2mila metri di profondità, quello che prima veniva messo sulle piattaforme. Per abolire anche le piattaforme. E in fondo al mare ci deve essere tutto quello che serve per inviare il petrolio e il gas fino a riva, a cento o duecento chilometri di distanza. Tutto automatico, tutto remotizzato. La Total stima un investimento di 6 miliardi di dollari per ogni singola istallazione su giacimento sottomarino. Quello che in superficie costa cento sotto costa infatti mille».
La Tea sistemi è forse l'unica azienda italiana a partecipare, insieme ovviamente all'Eni, a questo grande trend.
Nata quindici anni fa come spin-off del Consorzio Pisa Ricerche (già allora si chiamava Tea Center) già allora il gruppo di chimici e ingegneri si occupava di impatto ambientale ed emissioni di fluidi misti, come per esempio il vapore (a volte molto "sporco") delle centrali geotermiche. «Ben presto però ci accorgemmo che la sola geotermia non ci avrebbe sostenuto. E così cominciò nel '92 una cooperazione tra Eni e Tea che tuttora permane».
Con risultati abbastanza eloquenti, almeno per gli addetti ai lavori dell'industria. «Un esempio. Prendiamo il grande incidente di Macondo, che ha sparso il greggio per l'intero golfo del Messico.
Là, per aspirare la fuoriuscita incontrollata dal pozzo sottomarino fu usata una grande campana d'acciaio. Ma, siccome insieme al petrolio fuoriusciva anche metano a migliaia di metri sotto il mare, quest'ultimo si ghiacciò nella campana, formando idrati di metano e la mise fuori uso. Noi, invece, con Eni abbiamo sviluppato Cube, brevettato proprio nel 2010 a pochi giorni dal grande incidente. Un sistema di emergenza anch'esso a campana, ma capace di separare il gas dal greggio e di inviare i due fluidi su due circuiti diversi, a misura di ciascuno. Con il nostro sistema probabilmente Macondo non sarebbe avvenuto».
Un altro esempio. Pochi sanno che, in tutti i giacimenti, non si estrae solo greggio e gas, ma anche acqua. «Tanta acqua, a decine di migliaia di tonnellate, che va separata, depurata e smaltita – spiega Edoardo Dellarole, vicepresidente di Tea Sistemi – e questo genera un costo enorme, da miliardi di euro, per le compagnie, specie per i giacimenti più estremi».
«Da anni nell'industria si è sognato un sistema capace di separare l'idrocarburo dall'acqua direttamente nel pozzo, per poi inviare la seconda giù nel giacimento, magari in una falda idrica profonda.
Noi con Eni, dopo dieci anni di studi e di prove, ci siamo riusciti. E il nostro sistema Dows riesce a separare l'acqua nel pozzo per gravità, e a reiniettarla verso il fondo».
È solo un esempio di un'azienda fatta da una cinquantina di ingegneri altamente specializzati e un laboratorio pisano di misure e simulazioni unico in Italia. «Abbiamo appena festeggiato i nostri primi quindici anni – conclude Andreussi – con una promessa. Ad accogliere ricercatori e a aiutare, nei nostri campi di competenza, nuove spin-off. Come siamo stati noi».
Videogallery: Come funzionano gli impianti in profondità
Tordis, il primo impianto estrattivo sottomarino che separa olio da acqua
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