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Umberto Eco e l'Italia a 150 anni. I poveri della tv e i ricchi del web

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Questo articolo è stato pubblicato il 05 dicembre 2010 alle ore 14:10.

«L'identità italiana dei prossimi 150 anni?». Umberto Eco sorride nel suo salone, all'ombra del Castello Sforzesco di Milano, davanti all'impossibile domanda. È tornato da poco da Parigi, alla riunione di redazione del quotidiano gauchiste «Liberation» gli han chiesto come sempre de "les Italiens", e ha provato a rispondere «occhio piuttosto ai movimenti culturali che politici, occhio alle università».

E a pochi giorni dal 150º compleanno del paese, provando a guardare a quali idee uniranno – o divideranno come presagisce nel suo romanzo Il cimitero di Praga – le prossime generazioni, il pioniere della semiologia azzarda «Giudica da televisione e internet. La tv ha fatto bene ai poveri e male ai ricchi. Internet male ai poveri e bene ai ricchi».

Sembra un paradosso dritto dai tempi de «Apocalittici e integrati», il saggio di Eco che diede alla cultura di massa dignità di "cultura", fece incavolare ermellini e parrucconi del 1964, animando oggi 7580 siti sul web: «La televisione diede un linguaggio ai poveri, la lingua nazionale italiana. Può darsi che la parlassero con i tic di Mike Bongiorno ma comunque la impararono. La classe colta, i ricchi dico per ironia, magari invece abbandonarono la lettura di Marcel Proust e de La ricerca del tempo perduto, per quiz e varietà. L'esatto contrario con il web. I poveri, chi non ha gli strumenti di cultura del nuovo sapere, rischia di perdersi nell'oceano di informazione della rete, finendo nei siti dei complottisti, dei populisti. Non imparano nuove informazioni, ma si intossicano di menzogne. I ricchi, i colti, possono scrivere una tesi di esegesi bliblica cliccando su una tastiera».

Si chiama "digital divide", la barriera culturale prodotta dal web e potrebbe essere questo il ponte levatorio del nuovo Castello del potere nel prossimo secolo e mezzo nazionale. Un compleanno che Eco festeggia con moderato entusiasmo, «Il paese mi sembra avere perduto energia morale, forza. È come se fosse narcotizzato. Io sono stanco di vedere la nostra identità maltrattata all'estero dagli analisti.

Ancora due o tre anni fa ci compativano, "poveracci vi siete ridotti male", adesso quasi si incavolano "perché non reagite?" come se le identità, il consenso nazionale, fossero facili schemi da ribaltare». E prima di arrivare alla sua, preoccupata, vista sull'Italia 2010- 2011, Eco torna agli anni della fondazione, ai mito del Risorgimento.

«Gli Stati Uniti hanno avuto una guerra civile, e tragica, ma già col romanzo di Margaret Mitchell del 1936, e tre anni dopo con il filmone, Via col Vento prodotto da Selznick, provarono a darsi una visione unitaria, nazionale, dove yankee e confederati potessero darsi conto reciprocamente delle ragioni. Esercizio per noi italiani impossibile. Non solo ci siamo divisi tra guelfi e ghibellini, ma poi tra bianchi e neri, in un caleidoscopio perenne di fazioni e gruppi. Che non ci ha dato serenità politica».

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Per Eco è la cultura ad avere unito il paese, prima che politica e istituzioni ci provassero con alterne fortune: «Abbiamo una tradizione comunale di faide. Se oggi quella lacerazione è incarnata al Nord dalla Lega, non dimenticare che al Sud sono sempre rimaste attive spinte autonomistiche, separatiste, in Sicilia, in Sardegna. Il mito del Risorgimento, contestato o no, è contrapposto a un mito del regno Borbonico, che non ho mai condiviso. Per dirla tutta, se oggi c'è la monnezza in strada a Napoli è per il retaggio peggiore di quella tradizione.

E, con freddezza storica, dobbiamo ammettere che i piemontesi» – e qui Eco parla da piemontese doc, come il senatore Chevalley del Gattopardo – «fecero un sacco di cavolate, repressero dove dovevano riformare, ma credo che alla fine l'Italia unita sia un paese, e una comunità, migliore di quella che avremmo ereditato da Granducati di Toscana e Borboni. Sarebbe bene che Nord e Sud accettassero questa morale».

Per capire però il Dna profondo degli italiani a 150 anni, Eco chiama a un precoce sforzo globale. Considera il nostro paese «la prima nazione globale», quando ancora al posto del computer si usavano incunaboli. «La nostra identità è cosmopolita. In politica perché ogni castello chiamava lo straniero ad allearsi contro il castello contiguo. E in cultura perché la capacità "globale" dei nostri classici, ha fatto loro perdere italianità.

I francesi tendono ad annetterseli, considerano francesi Leonardo e Modigliani, gli spagnoli apprezzano un italiano come cugino, gli inglesi e i tedeschi guardano ai valori umanistici, come se Dante fosse compatriota di Shakespeare e Goethe e Machiavelli di Hegel. Se l'italiano è, e resta, esterofilo, gli stranieri tendono a assumerlo come un internazionale cosmopolita. Io sono arrivato in America più spesso invitato dagli istituti di cultura francese che da quelli di italianistica...».

Come ce la siamo cavata però per secoli, arrivando oggi malgrado tutto a essere la seconda industria d'Europa e una delle prime nel mondo, pur con un paese povero di risorse e di unità politica? «Perché ce la caviamo, siamo abituati a tenere duro, a creare, inventare, il Rinascimento è invenzione, il boom economico degli anni 60 invenzione. Sai da dove viene la parola kitsch secondo alcune etimologie? Da sketch, gli schizzi alla buona che gli artisti di strada vendevano ai turisti gentlemen inglesi del passato. Già allora riciclavamo le glorie, un marketing alla buona».

E oggi? Fabio Fazio ha chiesto a Eco, protagonista delle avanguardie alla Gruppo '63, collaboratore di «Espresso» e «Manifesto», se l'aggettivo "disperato" usato dal Sole per recensire il suo ultimo romanzo fosse azzeccato e la risposta, in tv, come qui, è la stessa: «Invecchiando ci si fa pessimisti. La sinistra aveva la carta Prodi e l'ha bruciata per due volte, proprio per quelle faide di fazione ancestrali. E la destra ha un leader che rappresenta tanti italiani nei loro tic e desideri, dà l'illusione di stare nella modernità, ma poi non ha riformato il paese. Ci vorrebbe un Comitato di salute pubblica, un governo unitario che lavorasse sui problemi, ma non vedo una classe politica, o un'opinione pubblica, capace di generarlo».

Disperazione o pessimismo non allontanano Umberto Eco dal lavoro: «I giovani li leggo, Ammaniti, Nove, la Avallone, sono bravi. Al cinema invece vado poco, solo i classici. Quando è rinata la rivista "Alfabeta" ho chiesto che venissero costituiti dei comitati di giovani laureati a Bologna, a Torino, a Roma, per dare la possibilità a tanti giovanissimi pieni di ingegno e senso critico. Ma il fatto politico più nuovo è passato dalla tv, il Vieni via con me di Fabio Fazio e Roberto Saviano. Oltre le ideologie del Novecento, m'è sembrato un modo di guardare al di là della politica, al di là dei partiti, cercando la cultura che ci unisca». È stato, per Eco, il regalo di compleanno all'Italia, nel compleanno numero 150.

gianni.riotta@ilsole24ore.com

twitter@riotta

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