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Questo articolo è stato pubblicato il 24 ottobre 2012 alle ore 08:19.

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Non ricordo i nomi dei missionari, ricordo solo che uno era biondo e l'altro moro, uno veniva dall'Oregon e l'altro dallo Utah. Arrivarono a casa nostra su bici usate, con pacchi di materiale informativo. Ricordo che odoravano di nocciola e dentifricio.

Il biondo, che aveva una pettinatura a onda e il cui corpo era a forma di balla di fieno, largo e quadrato, si strofinò i piedi con vigore sullo zerbino e fece a mia madre i complimenti per la casa, un piano solo in stile ranch nel centro di Phoenix, che la notte non rinfrescava mai ed era infestata di scorpioni e vedove nere. I ragazzi – perché questo mi sembrarono quella sera, io avevo tredici anni e mio fratello undici e i miei genitori avevano passato la trentina – ci strinsero la mano e presero posto in soggiorno, dove mamma aveva portato limonata e biscotti e papà aveva spento la tv perché si potesse parlare. I due ci sorrisero. A viso pieno. Poi ci chiesero, dolcemente, educatamente, se potevamo pregare.
Era il 1976, l'anno del bicentenario, e la mia famiglia non se la passava bene. Da pochi mesi ci eravamo trasferiti a Phoenix, portando dal Minnesota un furgone a noleggio che non superava le 50 miglia l'ora e in cui non erano entrati tutti i mobili. Avevamo abbandonato il paesino sul fiume in cui ero cresciuto perché mio padre, avvocato esperto di brevetti e amante di caccia e pesca, si era stancato del Midwest.

Si sentiva paralizzato dalla noia del conformismo; era stato preso da una visione di fiera libertà da deserto. In Arizona, terra di opportunità, rigogliosa e sconfinata, progettava di lasciare il lavoro per le aziende, mettersi in proprio e dedicare i fine settimana agli spazi aperti. Voleva pescare a mosca sulle montagne, sparare alle quaglie, comprare una Chevrolet Blazer con quattro ruote motrici e portarci nei canyon di roccia rossa ad accamparci e cercare fossili. Ci sarebbe piaciuto, ci disse. Un nuovo inizio, come si fa in America.
Era andata diversamente. Papà era crollato. Troppi aneliti, troppo spazio, nessuno a dargli una direzione. I problemi cominciarono quando suo padre morì di cancro ai polmoni. Quando papà tornò dal funerale in Ohio, il suo ufficio legale era in crisi. Certi giorni nemmeno andava al lavoro, si sedeva sulla panchina alla fermata del bus e sfogliava il giornale. Cominciò a parlare da solo in pubblico, il tono dei suoi mormorii era punitivo, esasperato, come quello di un allenatore arrabbiato. Si chiamava «Walt», si accusava di stupidità e debolezza. «Walt, patetico idiota», diceva. «Walt, ridicolo, stupido asino».

Ecco la storia di come arrivarono i mormoni. Tornando a casa da un viaggio a Blackfoot, Idaho, in cerca di lavoro, papà ebbe un esaurimento nervoso all'aeroporto di Salt Lake City, dove stava facendo scalo. La sua mente inquieta si rivoltò contro di lui e quasi lo paralizzò al momento dell'imbarco. Si ricompose e prese l'aereo, dove si ritrovò seduto accanto a una coppia giovane e bella che irradiava serenità e calma. I due percepirono la sua disperazione e cominciarono a parlargli della loro chiesa e della loro convinzione che la famiglia fosse eterna, un'unità sacra costituita in via permanente. Il mattino dopo, si svegliò di soprassalto da un incubo. Mamma minacciò di lasciarlo; ne aveva abbastanza. Ripensando alla coppia sull'aereo, papà aprì l'elenco del telefono, trovò un numero, lo digitò e disse che aveva bisogno d'aiuto. Adesso. Subito.

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