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Questo articolo è stato pubblicato il 24 ottobre 2012 alle ore 08:19.

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«Cioè: ma sono veri?», continuava a chiedermi Amanda. Era cresciuta cattolica a Chicago e si sentiva in colpa ad accettare favori che non poteva ricambiare all'istante. Beverly Zion rovesciò molto presto le sue attitudini.
Un pomeriggio da 32 gradi, in cortile, Bobby tenne un servizio di moda per una rivista, Eliza, diretta da una delle amiche carine di sua sorella. («La più importante rivista di moda sobria d'America», così la descrisse Kim ad Amanda, per intendere niente minigonne o ombelichi scoperti.) Il tema del servizio era l'abbigliamento sportivo estivo, a fare la golfista c'era una ragazza coreana molto magra che aveva un'aria irresistibile quando si chinava su un putter e buttava indietro svagata i suoi bei capelli lunghi. Tre settimane dopo, Bobby informò la casa che lui e la modella, mormone, erano fidanzati. Presto si sposarono.

Io e Amanda, che uscivamo insieme da più tempo di quanto fosse servito a Bobby e moglie per conoscersi e sposarsi, andammo al ricevimento, tenuto nella palestra di una chiesa suburbana e che mi ricordò i balli dell'adolescenza. Abbondanza di punch rosa, una miscela di succo e soda. Dolci e biscotti e ancora biscotti. Una buffa atmosfera di abbandono infantile e una preghiera alla fine perché ognuno tornasse a casa sano e salvo.
Dopo, in macchina, su una superstrada buia, Amanda disse: «Cedo: voglio entrare». «Non cedere», dissi. «Noi non siamo come loro. No». «Forse io no. Ma tu sì», disse. Non mi misi a discutere. Come già avevano fatto nel 1976, mentre i Kirn soffrivano d'insonnia nel caldo urticante di casa, i mormoni mi avevano seguito per un periodo difficile, ma stavolta nemmeno gliel'avevo chiesto. I miei assegni non andavano più a vuoto. E l'umore si era stabilizzato. Avevo smesso con il Vicodin, buttato nello scarico l'Ambien, sostituendoli con il comfort food e le serate in compagnia davanti alla tv. Avevo conosciuto George Clooney, ma rinunciato a tentare di essere come lui. Quando mi misi a letto, nella pensione, dopo il matrimonio, mi addormentai in fretta come non facevo da anni, al sicuro tra le mura di Beverly Zion.

Poco tempo fa tornavo a casa in macchina, da Los Angeles al Montana. Mi fermai a passare una notte a Salt Lake City con l'intento segreto di mostrare ad Amanda, con cui mi ero ufficialmente fidanzato pochi mesi prima, che lo Utah non era la zona di privazione sensoriale resa leggendaria dagli sketch dei comici americani. Lasciammo la superstrada e imboccammo la strada tracciata a suo tempo da Brigham Young, che l'aveva fatta ben larga perché ci si potesse passare in gruppi a cavallo: cercai un ristorante, vidi solo un Kfc (erano passate le dieci, troppo tardi per qualcosa di più elegante), e mi fermai davanti al Monaco Hotel. Avendo passato il weekend a Las Vegas lanciando fiches al tavolo della roulette e assistendo a sfiziosi spettacoli di cabaret, eravamo esausti, ma solo Amanda era assonnata. Il mio metabolismo ex mormone, facilmente eccitabile, era ancora in subbuglio per il Sunset Strip e per due energy drink presi per strada.

All'una di notte, la strada era vuota, lasciai l'hotel e camminai fino al tempio, un edificio in granito illuminato da luci accecanti, costruito da pionieri coraggiosi e completato circa duecento anni fa, dopo quarant'anni di lavoro. Sedetti su una panchina che dava sulla facciata est e sull'angelo d'oro con tromba della guglia principale: Moroni (8), l'essere che aveva diretto Joseph Smith fino al punto in cui stava sepolto il Libro di Mormon. Mi resi conto che cercavo qualcosa. Un aiuto, una spinta, un fuoco spirituale nello stomaco. Non avevo mai smesso di cercare quella sensazione. Cercai di forzare le cose pregando a occhi chiusi – non esattamente pregando, ma concentrando la mia volontà. Niente. Il rombo dei grandi camion sulla I-15, il battito caffeinico nelle vene. Poi aprii gli occhi e vidi qualcosa che mi ero perso: un semplice simbolo scolpito sopra l'entrata del tempio, che altre religioni magari non avrebbero messo proprio lì. Raccontava una storia, riassunta lì sulla pietra. La storia di mio padre. Per molti versi anche la mia. E, da ciò che sapevo, quella loro – quella dei mormoni.
Niente di misterioso. Niente di settario. Una stretta di mano.

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