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Questo articolo è stato pubblicato il 24 ottobre 2012 alle ore 08:19.

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Quanto a Romney, l'uomo, la persona, empatizzavo con lui e con la sua situazione. Non rappresentava il mormonismo più di quanto non lo rappresentassi io, ma era spesso chiamato a farlo da reporter che della sua fede non sapevano granché. Quando un giornalista del New York Times, Charles Blow, spronò Romney con un «infilati questo nella tua biancheria magica!», quasi sperai che lui perdesse la sua freddezza da banchiere e dicesse a quello scemo pieno di pregiudizi antimormoni di infilarsi qualcos'altro da qualche altra parte fino a farsi male. Sperai pure che spiegasse in maniera ragionata che il mormonismo è più che una questione di cerimonie; costituisce il più lungo esperimento americano di idealismo comunitario, promuovendo un'etica di condivisione delle fatiche, nata nell'era della frontiera che l'America contemporanea ha perso, con conseguenze sociali ogni giorno più gravi. E invece Romney si trattenne, e mi deluse. Non praticavo più la religione mormone, ma era ancora parte di me, a quanto pareva, e una parte più grande di quanto non avessi pensato fino a quel momento. A volte uno non sa di cosa è fatto finché non arriva qualcuno a cercare di distruggerglielo.

Qualche mese dopo il nostro battesimo a Phoenix, recuperate un minimo di forze, la mia famiglia si trasferì nel Minnesota rurale, in un paesino a 40 miglia da St. Paul e cominciammo rapidamente a perderci. Mio fratello minore era presissimo dallo sport, mio padre riprese a bere vino e birra ai pasti e mia madre si gettò a capofitto in un nuovo lavoro da infermiera in una clinica per dipendenze dedicata al vangelo dei dodici passi. Io conservai la fede. Abbandonare tanto in fretta chi aveva salvato la mia famiglia mi pareva rischioso, oltre che scortese. Ed ero diventato un credente.
L'insegnamento più caro al mio giovane cuore riguardava l'attraversamento di tempo e spazio, e di ciò che c'è oltre, da parte dell'anima. La versione del paradiso con cui ero cresciuto, in me instillata dalla frequentazione sporadica del catechismo luterano, mi era sempre parsa sterile e impersonale – un cavernoso anfiteatro di nuvole dove schiere di sconosciuti cantavano lode a un mago su un trono. L'aldilà dei mormoni sembrava più confortevole, una riunione di famiglia tra le stelle. Come Dorothy che si sveglia dal suo sogno di Oz, mi sarei ritrovato risorto con i parenti stretti, tutti sorridenti e in piena salute.

Una sera, in chiesa, mettemmo in scena una recita per aiutarci a visualizzare questo luogo rassicurante. Dopo aver simulato un incidente aereo staccando la corrente nell'edificio e trasmettendo suoni registrati di caos con gli altoparlanti, la congregazione fu fatta sfilare lungo un corridoio buio fino a raggiungere una sala dove ci aspettavano il vescovo e sua moglie, in vesti bianche, illuminati da occhi di bue. Suonava una musica dolce. Dietro di loro c'erano poster di galassie e pianeti e un manifesto che diceva «IL REGNO CELESTE».

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