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Questo articolo è stato pubblicato il 02 marzo 2011 alle ore 08:03.

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L'enigma del prezzo della benzina (Ansa)L'enigma del prezzo della benzina (Ansa)

«Benzina mia, ma quanto mi costi!». Molti consumatori-automobilisti venerdì scorso, e poi il lunedì successivo, hanno imprecato. Una reazione pavloviana: prima alla mossa dell'Eni, che ha portato il prezzo consigliato della verde a 1,536 euro e quello del gasolio a 1,426 euro; poi, ai rialzi della stessa entità (2 centesimi) decisi da Shell, Tamoil e TotalErg. Senza dimenticare, peraltro, la IP che ha rincarato addirittura di circa 2,2 cent la benzina e 2 il diesel.

Al di là dello stato d'animo degli automobilisti, i numeri racchiudono la risposta dei petrolieri ai problemi causati dalla rivolta in Libia. Una mossa che "provoca" la domanda, scontata: si tratta di rincari giustificati dalle condizioni di mercato, in particolare dalla crisi scoppiata in Medio Oriente e nel Nord africa?

La struttura del prezzo di un litro di benzina
Per rispondere al quesito, fondamentale è analizzare la struttura del prezzo di un litro di carburante,contraddistinto dalle seguenti voci:
A) Il prezzo internazionale del carburante, detto Platts (dal nome della piattaforma privata dove si incrociano domanda e offerta), che indica il costo della materia prima e che vale circa il 35% del totale;
B) Il margine lordo dell'industria petrolifera (10%);
C) La tassazione (accise e Iva) che pesa per circa il 55%.

Il valore "ottimale" alla pompa
Ebbene, secondo lo studio settimanale pubblicato da Nomisma Energia al 28 febbraio 2011, il Platts valeva 53,08 centesimi al litro; il margine medio lordo 15,05, le accise 56,4 e l'Iva (20%) 24,9 cent. Il che significa, sempre per Nomisma, un prezzo ottimale alla pompa di 149,43 centesimi per un litro di verde. Un valore, insomma, inferiore a quello medio effettivo (150,8) rilevato dal Ministero per lo sviluppo economico.

I costi industriali
Ma non è solo questione di Platts o margini medio lordi. Per rendersene conto basta un esercizio, puramente teorico, utile a capire tra quali pieghe produttori e operatori riescono a fare soldi. Quale? È sufficiente ragionare come il signor Rossi che, quando si fa i conti in tasca, procede in maniera molto semplice: definisce quant'è il suo reddito (i suoi ricavi); quali le sue spese (i costi) e, facendo la banale sottrazione, individua il suo "profitto". Ebbene, riconducendo il tema del prezzo della benzina al rapporto tra ricavi e costi industriali, come farebbe il signor Rossi, salta fuori un elemento interessante.

«In media - spiega Davide Tabarelli Presidente di Nomisma Energia - il greggio di buon livello, per esempio dell'Algeria, ha un costo industriale di estrazione di circa 3 dollari al barile. A questi, se ne devono aggiungere altri 2 per il trasporto verso la raffineria, la quale ne spenderà circa 3 nella realizzazione dei diversi derivati del barile. In totale siamo a 8 dollari al barile che, se calcolato in Platts, significa un prezzo di 3 centesimi al litro». Cioè, a livello puramente teorico, il prezzo del carburante sui mercati internazionali definito attraverso i soli costi industriali è a un livello infinitesimamente minori di quelli del Platts. A costi così bassi, il signor Rossi potrebbe fare moltissimi profitti, e partire per le Haway.

Certo, può obiettarsi: il raffronto non deve essere fatto direttamente perché c'è petrolio e petrolio; la filiera, inoltre, può avere colli di bottiglia; il mercato, poi, ha mille "frizioni" che giustificano un Platts più elevato. Tuttavia, pur facendo mille distinzioni, non si arriverà mai a quei livelli di prezzo internazionale presi come punto di partenza per calcolare quanto paghiamo un litro di verde.

La rendita dei paesi produttori
E allora, come giustificare una simile situazione? «Nel Platts - risponde Tabarelli - la parte più rilevante della quotazione è costituita dalla rendita pagata ai paesi produttori: cioè, il margine incassato dagli stati che possiedono pozzi petroliferi». Cui deve aggiungersi la finanziarizzazione della domanda. In una testimonianza di fronte al Congresso Usa, Michael Masters, importante gestore di hedge fund, già nel 2008 indicava l'effetto della domanda speculativa sui prezzi delle commodity: basta ricordare che gli asset allocati nelle strategie di trading sui commodity index è passato da circa 13 miliardi di dollari nel 2003 a 260 miliardi nel marzo del 2008.

«È un elemento dominante - conferma Tabarelli-. Di recente a Londra, durante l'International petroleum industry week, girava una battuta: il prezzo del petrolio è definito dalla domanda; gli elementi dell'offerta, cioè i costi di produzione, sono quasi indifferenti». Col che, ovviamente, i problemi si moltiplicano. Non è la solita questione "moralista" (che pur esiste) della speculazione, che dà anche profondità al mercato. Tutt'altro. Sono i mille e più mille prodotti finanziari legati alle commodity, rispetto ai quali molte proposte di riforma sono state fatte, ma nessuna si è trasformata in fatti concreti. Tanto che lo stesso Pasquale De Vita, presidente dell'Unione Petrolifera sottolinea: «Sicuramente qualcosa va fatto. Si tratta di rendere le transazioni più trasparenti ed evitare che le Borse si trasformino in una scommessa continua. Ciò non vuol dire, però, penalizzare gli operatori ma semmai garantirli».

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