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Questo articolo è stato pubblicato il 13 dicembre 2011 alle ore 16:51.

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Fiducia nel management, orgoglio del proprio lavoro, buoni rapporti con i colleghi. Anche in tempi di crisi non cambia la ricetta che rende l'azienda, agli occhi dei dipendenti, un posto di lavoro appetibile e paga anche in termini di risultati economici. A sintetizzare così l'edizione 2011 della classifica di Great Place to Work Institute Italia è Gilberto Dondé, partner e amministratore delegato.

Quali sono le principali novità dell'edizione 2011?
Quest'anno abbiamo introdotto due classifiche, una riservata ai big, con più di 850 dipendenti, l'altra alle pmi. Due le motivazioni: prima di tutto ce l'hanno chiesto le aziende partecipanti, che ritenevano che le grosse dimensioni comportassero anche delle problematiche diverse; in secondo luogo per uniformare i criteri adottati nei diversi Paesi, visto che stiamo affrontando il tema in questo modo un po' in tutto il mondo, con una classifica riservata alle "very large companies" e una alle pmi. Sul piano dei contenuti, mi pare significativo rilevare una coincidenza importante: quello che noi abbiamo identificato come tema dell'anno, il "work-life balance", ossia un buon equilibrio tra vita lavorativa e vita privata, è emerso anche come esigenza forte espressa dai dipendenti e come impegno delle aziende.

Come è cambiato, da questo punto di vista, l'ambiente di lavoro negli ultimi anni?
Stiamo tornando ai fondamentali della vita. Nel Medioevo non c'era separazione netta tra lavoro e vita privata, bottega e abitazione; la civiltà industriale ha creato questa distinzione: vado in azienda e lavoro, esco e ho finalmente la mia vita. Io credo che siamo un tutt'uno e mi piacerebbe coniare il termine life-life balance, nel senso che sono due aspetti complementari dell'essere umano. Oggi posso dire che mi porto la mia vita personale al lavoro e mi porto il lavoro a casa. Ma mi sento abbastanza libero. Non nascondo che ci sono attività in cui questo è più difficile - penso prima di tutto al mondo industriale - ma penso che forse, se si cominciasse a ragionare in questi termini, anche il lavoro ci sembrerebbe meno pesante.

Quali sono i fattori che oggi rendono un'azienda un "great place to work"? E come vede il futuro?
Dal punto di vista del dipendente, quello in cui ha fiducia nei capi, orgoglio per il lavoro che fa e si trova bene con i colleghi. È una regola che valeva e varrà sempre. Oggi poi, sempre più le aziende basano il proprio successo e la propria competitività sulle persone e da qui discende la necessità di rispondere alle loro esigenze. Laddove un tempo c'erano tute blu, oggi ci sono lavoratori in camice bianco che fanno andare macchine a controllo numerico e hanno esigenze, aspettative, capacità - in termini di comunicazione, di consapevolezza di come va l'azienda, di partecipazione alle decisioni - che allora non c'erano. E oggi servono persone di quel livello.

Quanto la crisi condiziona le politiche aziendali, anche quelle di fidelizzazione, senso di appartenenza, incentivazione?
Le aziende che occupano i primi posti nella nostra classifica sono quelle che hanno risposto meglio alla crisi, aumentando il proprio fatturato a fronte di una diminuzione di quello globale. Quindi affrontare il clima organizzativo, la qualità dello stare in azienda non è qualcosa che si fa solo quando ce lo possiamo permettere, ma è un valore aggiunto che ci consente di affrontare meglio i periodi più difficili. E diverse aziende, in questo periodo, stanno investendo su questo tema.

Quanto pesa l'equilibrio tra donne e uomini nel management?
Credo che in un periodo in cui il valore della diversità emerge in maniera eclatante, perché la contaminazione di idee e approcci diversi è un fattore di grande innovazione e creatività, rinunciare al 50% e più di potenzialità sia irrazionale. È un gap che si sta colmando troppo lentamente: se si considera che nel mondo dei servizi oltre il 50% degli imprenditori è donna, non si capisce perché questo non accada anche nelle aziende.

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